Non ha piovuto per più di quattro mesi, al Nord d’Italia soprattutto.
Allarmati notiziari riferivano dei preoccupanti livelli del Po, mai scesi così al di sotto delle consuete medie stagionali, tanto più che la stagione di riferimento avrebbe dovuto essere quella estiva.
Piemonte, Lombardia e Veneto hanno lanciato l’allarme siccità, denunciando una condizione critica per le sorti delle varie colture con conseguenti ricadute economiche. Nel Veneto è stato perfino dichiarato lo stato di crisi idrica, giacché mancavano diversi milioni di metri cubi d’acqua alla conta necessaria.
Poi, nel volgere di qualche settimana, quando ormai la primavera avrebbe dovuto essere conclamata per avviarsi verso l’estate, ecco che le cose sono di colpo precipitate. Nel vero senso del termine. Rovesci violenti ed inarrestabili si sono trasformati in autentiche alluvioni, fino a portare alle estreme conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti in questi giorni.
Acqua e fango hanno sommerso le città dell’Emilia; campi e colture sono andati irrimediabilmente perduti; migliaia di persone sono state sfollate e ancora si spala, con ogni mezzo, ad ogni età in qualunque condizione. La foto che circola in rete, di un uomo in carrozzina, ritratto di spalle, mentre imbraccia una pala aiutando come può i soccorritori è diventata il simbolo della volontà e della forza di una popolazione che si è rimboccata le maniche per rimediare, nonostante il tempo del disastro non si sia ancora compiuto.
Eppure, nonostante le evidenze, persiste la difficoltà di ammettere l’equazione di tali fenomeni con la crisi climatica.
C’è ancora chi nega, chi tenta confronti con passate e lontane stagioni in cui, in questo stesso periodo, pure si è assistito ad abbondanti precipitazioni.
Fantasiose congetture hanno inizialmente persino tentato di attribuire le cause delle esondazioni dei fiumi alle nutrie o agli istrici che, scavando le loro tane, danneggerebbero gli argini. E persino agli ambientalisti, che, viceversa, impedirebbero l’esecuzione di interventi di potenziamento degli stessi.
Qualunque scusa, pur di contestare un’ormai innegabile realtà.
Ma c’è dell’altro; perché, se il cambiamento climatico è senz’altro un motivo di tanto dissesto, non può negarsi che un’ulteriore causa sia da ricercare in azioni umane che – con la stessa modalità ‘indiretta’ che ha innescato gli sconvolgimenti del clima - contribuiscono ad aggravare ben note condizioni di precarietà legate allo stato dei luoghi.
Il rischio idrogeologico di certe zone d’Italia è difatti noto da tempo. L’Emilia Romagna è, anzi, tra le regioni in cui esso è più elevato, se si considera che il suo territorio è stato sottoposto nel tempo a importanti opere di bonifica ed è attraversato da migliaia di chilometri di canali di scolo e di irrigazione.
Non è, sia chiaro, il solo caso: secondo i dati di Legambiente ci sono, sul tutto il territorio nazionale, oltre mezzo milione di edifici (565 mila per la precisione) abitati in aree ad altissimo pericolo di frane. Quasi il 10% dell’intera superficie nazionale è interessato dal rischio di frane, alluvioni e allagamenti e sono l’81% i comuni che ne sono coinvolti.
Si ricorderà l’alluvione di Ischia di qualche mese fa, che ha tra l’altro reso nota l’esistenza di 6 mila pratiche di condono edilizio su una popolazione di 13 mila abitanti, come a dire che sull’isola non c’è quasi alcuna costruzione in regola.
Eppure si persevera in condotte scriteriate, come se il pericolo fosse un’eventualità possibile ma non probabile. Salvo poi a diventare una triste attualità e a dimostrare le mancanze solo quando ci si trova di fronte alle emergenze.
Per tornare all’attualità e, dunque, al caso Emilia Romagna, il rapporto ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) sul Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici del 2022 ha rivelato che questa regione è stata la terza più cementificata tra il 2020 e il 2021: 658 ettari cementificati in un solo anno, pari al 10,4% di tutto il consumo di suolo nazionale.
Ora, è noto che un suolo cementificato, bitumato o comunque occluso impedisce l’assorbimento dell’acqua che, dunque, scivola sulla superficie scorrendo violentemente di oltre cinque volte rispetto a quanto farebbe su un suolo ‘libero’, che invece tende a smaltirla, assorbendola o ricaricando le falde.
L’Emilia, in virtù dell’eccessiva edificazione è arrivata ad avere una superficie ‘impermeabile’ dell’8,9%, laddove la media nazionale è del 7,1%; ed è allora un’ovvia conseguenza che, in caso di precipitazioni tanto abbondanti e legate ad esondazioni (che, a loro volta, sono spesso dovute alla ‘rettifica’ dei corsi d’acqua, operata con la cementificazione dei loro letti), l’acqua si accumula sul suolo in enorme quantità e con altrettanta energia, con le evidenti conseguenze di questi giorni in termini di danni e vittime.
Sempre l’ISPRA ha anche segnalato che tra il 1990 e il 2022 sono stati stanziati 9,5 miliardi di euro per fronteggiare il dissesto idrogeologico: quanti ne siano stati utilmente impiegati, quanti sprecati o rimasti congelati lo dimostrano evidentemente i fatti. E lo stesso probabilmente accadrà per i fondi europei del PNRR (2,5 miliardi di euro destinati specificamente a interventi contro il dissesto idrogeologico) se non li si impegnerà con progetti validi e realizzabili.
D’altro canto, l’Italia è ad oggi l’unico Paese europeo che ancora non ha presentato il proprio “piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici” pur continuando a sostenere costi elevatissimi per fronteggiare emergenze che - come nel caso dell’Emilia (e innegabilmente) – sono innegabilmente legate anche a quei cambiamenti.
Con tutta la solidarietà ed il rispetto per una popolazione che sta vivendo un autentico dramma e lavora con ogni mezzo per risollevarsi, è chiaro che finché non sarà acquisita una reale consapevolezza dei danni che la condotta umana continua a provocare, ogni conseguenza sarà latte versato su cui sarà inutile piangere lacrime di coccodrillo.