È una pagina di storia mirabilmente raccontata quella che Roman Polanski presenta con la sua ultima fatica, “L’ufficiale e la spia”, da poco approdata nelle sale cinematografiche.
La vicenda narrata non è nuova al grande schermo, dove, in un passato che appare ormai remoto, era già stata portata con “Emilio Zola” di William Dieterle nel 1937 e con “L'affare Dreyfus” di José Ferrer del 1957.
Polanski ripropone dunque le vicissitudini del capitano dell’esercito francese Alfred Dreyfus che, nel 1895, nel cortile dell'École Militaire di Parigi, venne pubblicamente condannato e sottoposto all’umiliante rituale della degradazione perché accusato d’essere un informatore dei tedeschi.
Lo fa, però, da una diversa prospettiva nella quale, più che la ricostruzione storica della vicenda, culminata con il famoso “J’accuse” (la lettera di Émile Zola scritta al Presidente della Repubblica Félix Faure e pubblicata sul giornale “L’Aurore”, col favore del suo direttore, George Clemenceau, il famoso radicale soprannominato “Il Tigre”, e di altri politici ed intellettuali dell’epoca), che diede il via alla campagna per la revisione del processo, ciò che viene messo in risalto è il conflitto tra morale e giustizia da un lato e i pregiudizi e la politica dall’altro.
Un tema quanto mai attuale di questi tempi, che favorisce, dunque, una lettura anche metaforica del film, secondo quelle che probabilmente sono state le intenzioni dello stesso regista (le cui vicende processuali, legate a certe accuse mossegli, sono ben note), nel tentativo di sollecitare la riflessione del pubblico sulle conseguenze dannose legate alla diffusione delle false notizie e sulla difficoltà di ripristinare la verità quando ciò comporti il dover contraddire l’opinione generale che ormai si è formata, quasi che riesca più facile e conveniente soffocare la coscienza piuttosto che riconoscere l’errore commesso.
La trama del film segue quella del romanzo omonimo scritto da Richard Harris (2013), che ne ha curato anche la sceneggiatura assieme al regista: durante la Terza Repubblica francese, nel 1894, Madame Bastian, un'addetta alle pulizie presso l'Ambasciata di Germania a Parigi, viene assoldata per consegnare il contenuto del cestino per la carta straccia dell'ufficiale von Schwartzkoppen al maggiore Henry, vice-direttore della Sezione di Statistica, l’ufficio di controspionaggio del Ministero della Guerra francese, dove i pezzi di carta vengono ricomposti. Tra quei rifiuti viene rinvenuta una nota, chiamata bordereau, contenente una lista di cinque documenti segreti che l'anonimo scrivente si offre di vendere ai tedeschi. La Sezione statistica conclude che solo un ufficiale di stato maggiore che abbia prestato di recente servizio nell'artiglieria può avere accesso ai documenti menzionati e, tra i quattro ufficiali sospettabili, le accuse ricadono su Alfred Dreyfus, la cui grafia pare vagamente somigliare a quella con cui è stato scritto il bordereau e, soprattutto, è ebreo.
Era la fine dell’Ottocento e l’antisemitismo si stava affermando anche in Francia.
Dreyfus, nonostante si professi innocente, viene perciò sottoposto ad un processo sommario a porte chiuse, basato su prove fragili e opinabili, in cui una grossa responsabilità ha anche il grafologo interpellato, che conferma la coincidenza della grafia del capitano con quella del bordereau. Viene dunque giudicato colpevole, degradato pubblicamente nel cortile della Scuola militare (ed è questa la scena iniziale del film) e mandato in prigione sull’Isola del Diavolo, nella Guayana francese.
Poco tempo dopo, il tenente colonnello Georges Piquard – già maestro di Dreyfus – viene promosso e nominato responsabile del contro-spionaggio in sostituzione del direttore della Sezione Statistica, che era stato il principale accusatore di Dreyfus. Ha così modo di verificare che la spia è un altro ufficiale e si attiva, pertanto, per far riabilitare Dreyfuss. Ciò lo pone in contrasto con i suoi superiori, che lo rimuovono dalla guida dei servizi segreti e lo mandano in servizio in zone di guerra in Africa.
È al suo ritorno, diversi mesi dopo, che Piquard, anche a costo di perdere tutto - l’esercito, in primis, che è sempre stato la sua vita – decide di smuovere l’opinione pubblica, sperando che ciò induca alla revisione del processo, come difatti sarà.
Attraverso un continuo gioco di flashback, le vicende di Dreyfuss si incrociano con quelle di Piquard, che finisce per diventare il vero protagonista della storia, un modello di moralità e rettitudine.
Benché non abbia simpatia per il condannato e si sia dichiarato apertamente contro gli ebrei, tuttavia Piquard è in grado di tenere ben distinto il proprio piano personale da quello del ruolo che riveste e, ancor più, da quello dell’equità e della giustizia, che rispondono solo alla coscienza ed alla verità.
Il suo percorso interiore - egregiamente rappresentato nel film – descrive la parabola di un uomo che, inizialmente omologato all’opinione comune, nel momento in cui s’imbatte nella verità, non esita a modificare le sue convinzioni, rifiutando di rendersi complice – come i suoi superiori – di giochi di potere basati su pregiudizio ed opportunismo.
È una grande lezione quella che arriva dal colonnello Piquart e, per suo tramite, dallo stesso Polanski, che offre così lo spunto per adattare alla nostra attualità il simbolismo che emerge dalle azioni del suo personaggio: è necessario come non mai interrogarsi sulla morale dei nostri tempi e restare sempre vigili ed attivi, per impedire l’omologazione, la manipolazione e l’appiattimento dell’opinione pubblica di fronte a ciò che è immorale, illegittimo, inumano, e – soprattutto, battersi per affermare la propria identità di esseri razionali e pensanti contro un potere che è in grado di costruire falsificazioni capaci di resistere a lungo e di captare menti e pensieri.
E, ancora, serve che rettitudine e onestà non cedano al fascino del potere, perché tradire se stessi è ancor più degradante che tradire il prossimo. Una riflessione estrema, questa, che viene suggerita allo spettatore con l’ultima sequenza del film, in cui, in maniera molto sfumata, il regista pare dia un’altra indicazione: una volta guadagnati poltrona, ruolo e potere anche le condotte e le opinioni più integre e severe corrono il rischio di ribaltarsi.