In un libro-inchiesta di qualche anno fa, Alessandro Rosina – giovane professore ordinario di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano – nel trattarne il fenomeno e la sua allarmante crescita, li aveva ridefiniti “la gioventù dei tre ‘no’: no studio, no lavoro, no formazione”.
Si tratta dei NEET, acronimo inglese che sta per “Not in Education, Employment or Training” ed indica quella quota di popolazione di età compresa tra 15 e 29 anni che non è, appunto, impegnata in alcuna occupazione, percorso di istruzione (scolastico o universitario) o di formazione (corsi professionali, stage, tirocini e quant’altro). Nello specifico, tra gli inoccupati rientrano quelli a vario titolo: disoccupati tout court, cioè i giovani alla ricerca attiva di occupazione; gli inattivi, cioè quelli che non cercano lavoro né sono disponibili a lavorare; gli scoraggiati, cioè coloro che hanno gettato la spugna, rinunciando definitivamente a cercare un'occupazione, e che sono usciti dal mercato del lavoro.
Il fenomeno è stato lungamente analizzato, sia al fine di evidenziare le connessioni esistenti tra le dinamiche del mercato del lavoro ed il sistema educativo e formativo, sia per individuare le responsabilità dei vari attori istituzionali, economici, sociali (scuola, sistema produttivo, famiglia, mass media) che vi concorrono.
Perlopiù si è giunti alla conclusione che la soluzione al problema sia nel dover concedere maggiore fiducia ai nuovi talenti, alle nuove competenze ed alla creatività delle moderne generazioni, che, viceversa, le resistenze mentali dettate da visioni ancorate a tradizionali modelli di lavoro rendono di difficile comprensione e accettazione.
Un’idea, questa, che pare aver sposato anche il ministro Bianchi, che nel suo recente intervento al convegno dell’Associazione Nazionale Presidi ha sottolineato come, rispetto al nostro passato in cui “pensavamo al posto fisso, i ragazzi di oggi vogliono un lavoro che soddisfi le proprie esigenze e la propria creatività”.
Ben venga, allora, il cambio di prospettiva se vale a superare l’empasse.
Tuttavia i dati statistici denunciano un continuo e preoccupante avanzamento del fenomeno: secondo le attuali stime, in Italia i NEET sono addirittura 1/5 del totale della popolazione giovane di riferimento, il numero peggiore dell’intera Unione Europea.
Spesso le cause da cui esso origina risiedono in problemi familiari: si è osservato che i ragazzi appartenenti a famiglie con problemi economici sono maggiormente soggetti all’abbandono scolastico, che tra l’altro si ripete, quasi tramandandosi, da una generazione all’altra. La conseguenza per molti finisce per essere l’esclusione sociale o la povertà.
Si è pure evidenziato che la maggioranza dei giovani rientranti in questa categoria tende a dipendere da programmi di assistenza sociale - quali, ad esempio, il reddito di cittadinanza - che pertanto qualcuno condanna (è accaduto anche qualche giorno fa nell’aula di Palazzo Madama) come strumenti che assecondano l’inerzia e l’indolenza, lasciando passare un messaggio – evidentemente diseducativo - che rende privilegiato il sostentamento rispetto al sacrificio.
Su questa lunghezza d’onda sembrano peraltro collocarsi recenti interventi giurisprudenziali, tendenti a sottolineare come il mancato raggiungimento dell’autonomia da parte di taluni giovani sia da imputarsi esclusivamente alla loro colpa ove perseverino in un atteggiamento di rifiuto di opportunità lavorative, pretendendo, viceversa, di godere d’altre modalità di sussidio.
Emblematica è in tal senso la pronuncia della Cassazione (ordinanza n. 16771/2022) che, nel rigettare il ricorso con cui due figli maggiorenni si erano opposti alla revoca dell’assegno di mantenimento concordato in sede di divorzio a carico del padre, ha ritenuto immotivato il rifiuto di due offerte lavorative procurate da quest’ultimo alla figlia ventiduenne la quale aveva interrotto gli studi universitari dopo un anno e mezzo, senza aver dato alcun esame e senza aver dimostrato negli ultimi anni di avere una progettualità lavorativa o formativa.
Sulla scorta di quanto evidenziato nel precedente grado d’appello (allorché dalle prove raccolte era emerso che: il mancato raggiungimento dell'indipendenza economica delle figlia era imputabile direttamente alle sue scelte; che la stessa aveva rifiutato senza motivo diverse offerte lavorative; che non si erano evidenziate neppure inclinazioni o aspirazioni lavorative tali da far ritenere che la stessa stesse seguendo una strada formativa alternativa) la Suprema Corte, richiamandosi a sue precedenti pronunce, ha perciò precisato che il mantenimento non ha una funzione assistenziale incondizionata e illimitata nel tempo e nel contenuto nei riguardi dei figli maggiorenni e disoccupati. L'obbligo di corresponsione dello stesso viene dunque meno se il mancato raggiungimento dell'autonomia economica è frutto della mancanza di impegno effettivo verso un progetto formativo rivolto all’acquisizione di competenze professionali o dipenda esclusivamente da fattori oggettivi contingenti o strutturali legati all’andamento dell’occupazione e del mercato del lavoro.
Come dire, insomma, che arriva fortunatamente un tempo in cui “la paghetta” esaurisce la sua funzione, e laddove non sia servita ad impartire la lezione del sacrificio e della conquista, non per questo finisce per trasformarsi in pretesa, né tanto meno legittima il ricorso ad espedienti sostitutivi dell’impegno e della fatica.