Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi: sono tre nomi comuni, di quelli che non riempiono le cronache né (forse) saranno destinati a figurare nelle pagine di storia. In tanti nemmeno ne avranno sentito parlare e la loro prodezza - complice il tempo di vacanza e il rituale “scollegamento da tutto quanto accade intorno” che di solito l’accompagna - sarà passata inosservata.
Eppure, l’intervento di quelle tre ragazze – tre neodottoresse diplomate alla Scuola Normale Superiore di Pisa – durante la cerimonia di consegna dei diplomi, sul finire dello scorso mese di luglio, vale la pena di essere ascoltato e riascoltato, come ho fatto io più volte, commuovendomi sempre nel giungere al finale.
Avrebbero potuto prendersi il loro diploma, l’elogio e la stretta di mano della commissione e un “arrivederci e buona vita!”; e invece hanno voluto dare un senso diverso a quella cerimonia, lasciare un segno, lanciare una provocazione ed un monito, ma senza arroganza né alterigia.
Lo hanno fatto, anzi, con la voce tremante, con l’evidente fragilità dei loro pochi anni e del loro fisico minuto, ma, al tempo stesso, con la determinazione e il coraggio di chi sa di essere nel giusto e - pur mantenendo il massimo rispetto - non teme di esporsi.
Sono così riuscite a pronunciare il più duro dei discorsi ed a lanciare la più pesante delle accuse nei confronti di quella istituzione che le ha diplomate ma, più in generale, di tutte quelle che finiscono asservite alle logiche di mercato piuttosto che alla società ed al benessere di tutti.
“Proprio perché la scuola ha significato così tanto per noi, vorremmo oggi provare a spiegare come mai quando guardiamo noi stessi o quando ci guardiamo intorno, ci è difficile guardare questo momento di celebrazione senza condividere con voi alcune preoccupazioni": hanno iniziato così quei quindici minuti di arringa in cui, alternandosi in maniera equa ed equilibrata, hanno smosso le coscienze dei presenti e di chi le seguiva a distanza, toccando temi seri, solidi, importanti, senza che nessuno potesse fermarle e con un’efficacia dirompente, nonostante la pacatezza dei modi e dei termini, così diversi e lontani dalle maniere esibizioniste, volgari, presuntuose di tanti politici cui ormai siamo divenuti avvezzi.
La loro è stata una critica completa, a 360 gradi, contro il sistema accademico attuale e l'impostazione neoliberale dell'Università, la sua spinta alla competitività estrema, la sua rinuncia a una presa di posizione nel dibattito pubblico e la persistente disparità uomo-donna nel contesto accademico.
Hanno così puntato il dito contro un modello accademico perverso, che, fondandosi sulla retorica dell’eccellenza, spinge alla competitività, generando malessere e frustrazione: “C’è un modo di dire molto popolare in queste aule” – hanno annotato - “e cioè che alla Normale si viene buttati subito in acqua ed è così che, pur di non affogare, si impara a nuotare in fretta. E tuttavia oggi a diplomarsi con noi non ci sono tutte le persone con cui abbiamo condiviso il nostro percorso; la loro assenza ci pesa ed è una sconfitta per la scuola. Anche tra i presenti alcuni hanno imparato a nuotare a prezzo di anni di malessere. Vorremmo dirlo qui con chiarezza: non è grazie a, ma nonostante questo principio che siamo arrivati qua. Il risultato è stato quello di convivere per cinque anni con la sindrome dell’impostore, senza sentirci mai all’altezza del posto che avevamo vinto. C’è chi ha adottato una performatività esagerata per compensare il proprio senso di inadeguatezza, sfruttando con spirito esibizionistico i seminari e gli interventi a lezione. C’è chi invece ha evitato di fare domande e chiedere spiegazioni per paura del giudizio altrui. Questa esasperante pressione sociale non è solo causa di un generico malessere, è piuttosto una stortura sistemica grave che può avere conseguenze gravi, fisiche e psicologiche. (…) Il nostro malessere è intrinsecamente legato a un modello, quello dell’accademia neoliberale che la Normale non fa niente per contrastare ma tutto per corroborare”.
Ascoltando quelle parole, ho pensato a quanta verità contengano, a come non siano esclusive dei soli contesti accademici privati ma siano purtroppo rinvenibili anche nei ranghi più comuni, nelle scuole in particolare, dove sempre più spesso tanto gli insegnanti che i genitori credono che la disciplina, la meritocrazia, la competizione, la performance, debbano essere il fulcro del sistema scolastico piuttosto che pensare ad un modello meno rigido, in cui si vada al di là del fluire diretto dei saperi affidato alla didattica frontale e si dia spazio alle inclinazioni, si lasci spazio alla libera espressione dello spirito, si valorizzi tutta quella infinita e varia ricchezza che si cela in singole e invece mortificate, individualità.
Non hanno dimenticato nessuno le tre ragazze dal nome che vanta la stessa iniziale, una “V” che – simbolicamente - può richiamare anche a “verità”, “vittoria” e “vergogna”.
Hanno ringraziato tutti i lavoratori e le lavoratrici, anche quelli che in genere si omettono perché non stanno seduti dietro ad una cattedra.
Hanno parlato della disparità di genere, del lavoro di cura che ricade sulle donne e che spesso è incompatibile con il desiderio di raggiungere i propri traguardi lavorativi, ammonendo la Scuola Normale “in quanto istituzione, corpo docente, comunità” a “prestare più attenzione alla disparità tra uomini e donne all’accesso all’accademia universitaria. Borse di dottorato e assegni di ricerca sono equamente distribuiti, così non è per le cattedre di seconda fascia, ricoperte da donne nel 39% dei casi e di prima fascia nel 25% dei casi. Si tratta di un divario contro cui non si combatte ancora abbastanza, per questo vi chiediamo di prestare attenzione quando di fronte a voi avete una donna, vi chiediamo di pensarci due volte quando una ricercatrice è incinta, una professoressa è madre o quando un’allieva rimane ferita di fronte a un commento che voi ritenete innocuo”.
Hanno parlato del divario tra nord e sud e di quello tra i poli di eccellenza ultra-finanziati e la gran parte degli atenei, interrogandosi su "quale valore ha la retorica dell’eccellenza se fuori da questa cattedrale nel deserto ci aspetta un contesto desolante?".
Hanno infine concluso, con una lucidità ed una passione disarmanti: “Sappiamo che le nostre sono parole dure, ma dare questo momento di celebrazione la giusta serietà significa anche e soprattutto esercitare con consapevolezza lo spirito di analisi e critica che abbiamo imparato in questi anni, perché se è vero che in questa stanza siamo privilegiati, allora dovremmo essere noi per primi a sfruttare questo privilegio per informarci e per cambiare le cose”.
Teniamolo presente noi tutti, allora, e ci valga da monito, il sincero ed accorato appello finale di quelle tre coraggiose ragazze: “la retorica dell’eccellenza su cui il sistema scolastico e sociale poggiano, non è compatibile con l’incompletezza e la fallibilità di ognuno di noi”.