Il connubio vincente Milani-Albanese – già rivelatosi in “Grazie ragazzi” – si conferma nuovamente in questo nuovo film, “Un mondo a parte”, che senza grosso clamore si sta tuttavia imponendo ai vertici delle classifiche delle pellicole più viste ed apprezzate.
E ne ha tutte le ragioni, giacché è un prodotto che riesce ad amalgamare, in un’alchimia efficace e ben riuscita, la semplicità del racconto con la profondità dei contenuti, ottenendo lo scopo di pungolare lo spettatore per indurlo ad una riflessione, un pensiero, persino un esame di coscienza.
Difatti sono tante le tematiche importanti su cui si sollecita l’attenzione, sebbene impiegando una narrazione delicata e leggera, condita a tratti da ironia - se non proprio di comicità – ed uno stile in cui sovente si fondono realismo e fantasia.
Il protagonista è un maestro di una scuola della periferia romana, stanco – dopo trent’anni d’insegnamento - dell’arroganza e dell’indisponenza di alunni plasmati da modelli educativi improntati alla pretesa piuttosto che al rispetto, indottrinati sin da piccoli a prevalere secondo la regola del più forte, nel totale disinteresse per l’apprendimento e la conoscenza. Da qui la scelta – ingenua e romantica – di chiedere il trasferimento in una scuola di un piccolo paese sospeso tra i monti del Parco Nazionale degli Abruzzi, inseguendo il sogno di una vita semplice e di una natura incontaminata.
Ma la realtà che trova è ben diversa da quella immaginata: un clima ostile, una popolazione ridottissima, una rassegnazione “che si mangia a morsi come la scamorza”, una scuola con un’unica pluriclasse - prima, terza e quinta elementare – per un totale di sette alunni. Pochi per continuare a sopravvivere. E si sa che se muore la scuola, muore pure il paese.
Il tema centrale è dunque questo: lo spopolamento dei piccoli centri, la desolante realtà di tanti paesi d’entroterra, soprattutto al Sud, che stanno scomparendo, destinati alla stessa fine di Sperone, il paese abruzzese (reale) che nel film viene citato come il temuto esempio della disfatta e dell’abbandono.
Una realtà che mi è cara, che conosco e sento molto intimamente, giacché appartengo anch’io alla schiera di quelli che se ne sono andati, che hanno visto l’originario nucleo di tremila abitanti del proprio piccolo e accogliente paese assottigliarsi ogni anno sempre di più, fino a diventare poche centinaia, distribuiti qua e là tra le troppe case ormai chiuse e vuote.
Posti difficili, visti come luoghi di pace e bellezza per chi ci arriva da turista nei mesi più belli, ma non per chi ne affronta quotidianamente le difficoltà e la solitudine di tutta la restante parte dell’anno.
Eppure lo sforzo va fatto; servono resilienza e coraggio, la volontà di non rassegnarsi ma di tentare una qualunque forma di rinascita che restituisca linfa vitale a quei luoghi e a quella gente. È questo il messaggio più forte e profondo del film, quell’idea di “Restanza”, neologismo creato dall’antropologo calabrese Vito Teti, per significare l’importanza di rimanere ancorati alle proprie radici in un mondo che sembra imporre l’estrema mobilità.
È lo stesso protagonista del film a citare l’opera e l’autore, rispondendo alle preoccupazioni dei genitori di Duilio, un ragazzo del posto che, a differenza di tutti gli altri, ha scelto di non andarsene, ma di avviare un’azienda agricola sfruttando un vecchio trattore rimesso in sesto ed i terreni lasciatigli dal nonno: “Partire e restare sono i due poli della storia dell'umanità. Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare. La Restanza. Cos'è la Restanza? Significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere, e al contempo da rigenerare radicalmente.”
E se questa affermazione, nello specifico, rappresenta l’invito a prendersi cura e a innovare responsabilmente l'ambiente in cui si sceglie di vivere, in una misura più ampia esso si estende anche alle relazioni umane, alle tradizioni di una comunità, per il cui mantenimento si necessitano la medesima cura e responsabilità.
Ecco che allora ogni rimedio va tentato, anche quello di salvare le sorti della scuola e di tutta la comunità rigenerandole, infondendo uno spirito nuovo, secondo uno schema che sembrerebbe per qualche verso richiamare un noto modello, quello di Riace, che sebbene lungamente osteggiato, ha dimostrato concretamente la sua efficacia: ripopolare includendo, combinare accoglienza e inclusione con la necessità di tenere in vita i luoghi.
Ed è così che bambini e famiglie in fuga dall’Ucraina in guerra vengono accolti e inseriti nel tessuto di quella piccola comunità, offrendole l’opportunità di risorgere e risorgendo a loro volta. A quell’operazione partecipano tutti: le “autorità del luogo” – la pragmatica vicepreside della scuola (una straordinaria Virginia Raffaele), il maresciallo, il sindaco ed il parroco – ma anche la restante popolazione, compreso il bidello della scuola e l’autista dello spazzaneve, tutti interpretati da persone autentiche, abitanti del luogo, che hanno sostanzialmente portato sullo schermo se stessi ed i loro reali bisogni.
In sottofondo ai due temi portanti ne sfilano anche altri: il lavoro precario (quello di una giovane insegnante costretta a fare la pendolare tra tre paesi per coprire il suo monte orario) e il disagio di un’adolescente non accettata dai paesani e dalla sua famiglia a causa del suo amore lesbico.
Il tutto trattato con la stessa semplicità, che ne costituisce anche la grande potenza.
“Un mondo a parte” è un film semplice che parla di cose difficili e che, soprattutto, racconta “una parte di mondo”.