Il lavoratore in nero è una vittima o un complice? Mettendo da parte il senso umano e tutta la solidarietà spesso verso chi è costretto dalla disperazione ad accettare situazioni lavorative che sfiorano lo schiavismo, la faccenda davanti alla legge non è di facile soluzione. Perché in effetti, a ben vedere, un lavoratore in nero non versa contributi pensionistici, non è assicurato contro gli infortuni e non ha alcun beneficio paragonabile a chi invece lavora con regolare contratto. Motivi sufficienti per poter essere destinatario anche di sanzioni amministrative pesanti.
In pratica, sia il Dlgs n. 151/2025 che il DL n. 146/2021 ritengono il lavoratore sommerso corresponsabile della situazione, come rimarcato anche dal DL Pnrr 2024, che ha introdotto regole e maxi sanzioni non solo per il datore che offre lavoro in nero, ma anche per quanti lo accettano. Il paradosso più evidente è che la legge sembra schierarsi verso l’ovvio tentativo di scongiurare questo tipo di occupazione creando meccanismo di protezione verso quanti lavorano in nero, vittime ma in fondo al tempo stesso soggetti che hanno infranto le norme ed evaso il fisco.
La normativa tende a tutelare il lavoratore, in genere la parte più debole, ma come per i datori di lavoro, le sanzioni variano in base alla durata del periodo non a norma: fino a un mese da un minimo di 1.800 a un massimo di 10.800 euro, per due mesi, la multa va da un minimo di 3.600 a un massimo di 21.600 euro, mentre superando i tre mesi, la sanzione minima è di 7.200 euro, ma può arrivare a 43.200.
Esistono poi casi in cui il dipendente sommerso non solo è colpito da sanzioni, ma viene anche segnalato alla Procura della Repubblica quando percepisce aiuti di Stato come Naspi e l’assegno di inclusione e ha preferito volontariamente un’occupazione sommersa per evitare di pagare le tasse. In quel caso scatta revoca della prestazione assistenziale e potenzialmente anche l’obbligo di restituire le somme indebitamente percepite, mentre all’orizzonte si profila anche un risvolto penale, con reclusione da 6 mesi e un anno, nei casi di somme inferiori ai 4.000 euro commutabile in sanzioni da un minimo di 5.164 e un massimo di 25.822 euro.
Decisamente salate, al contrario, le sanzioni previste dallo scorso marzo per ogni lavoratore sommerso destinate a colpire i datori di lavoro che comunichino in ritardo il rapporto effettivo: fino a un mese da 1.950 a 11.700 euro, due mesi da 3.900 a 23.400 euro, oltre i 60 giorni da 7.800 a 47.800. Cifre che possono raddoppiare in caso di recidiva nei tre anni precedenti e se il lavoro sommerso riguarda un soggetto extracomunitario privo di permesso di soggiorno, caso che sfocia anche nel penale, con il rischio di aggiungere al resto un soggiorno dietro le sbarre fra i 6 mesi e un anno.
Secondo la sentenza n. 9867/2011 della Cassazione, il contribuente è sempre tenuto a dichiarare al fisco i compensi ricevuti, anche quelli percepiti in nero, che vanno inclusi nella base imponibile per il calcolo delle imposte. Quindi, per assurdo, anche se il datore di lavoro non versa le ritenute d’acconto, il lavoratore è comunque obbligato a pagare le imposte sui redditi ricevuti.
In Italia, secondo un recente report Istat il numero di lavoratori sommersi supera quota tre milioni e riguarda la quasi totalità dei settori, anche se con una netta prevalenza del terziario (75%), del manufatturiero (15%) e di quello agricolo. La Lombardia, a fronte di 504mila impiegati irregolari, ha uno dei tassi d’incidenza più bassi d’Italia (10,4%), mentre in Calabria il tasso di irregolarità tocca il 22% e ha un’incidenza del 9,8% sull’intera economia della regione.
La percentuale maggiore di lavoratori irregolari riguarda le attività part-time all’interno di un numero crescente di aziende, che tra aumenti dei costi energetici e inflazione sono finite in crisi e tentano di ridurre la pressione fiscale evitando il versamento dei contributi. Non a caso, secondo la Ciga di Mestre il fenomeno genera quasi sfiora gli 80 miliardi all’anno, quasi il 5% del PIL italiano.
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