Continuiamo a chiamarla “Facebook”, ma sappiamo che, da novembre dello scorso anno, la piattaforma social più diffusa al mondo è diventata “Meta”, a motivo della sua appartenenza a quel progetto - allora rivelato da Zuckerberg - di creare il Metaverso (cfr “
Mondi Paralleli”
in Fiscal Focus del 13 novembre 2021), la realtà virtuale in grado di riprodurre fedelmente tutte le attività della vita reale.
Sappiamo pure che, agli inizi di dicembre, è stata lanciata Horizon Worlds, la versione beta (cioè quella non definitiva, ma già testata dagli esperti, e messa a disposizione di un certo numero di utenti per verificarne l’efficienza ma, soprattutto, le inefficienze che azioni imprevedibili potrebbero rivelare) del Metaverso, in cui utenti rigorosamente maggiorenni, muniti di visori per la realtà virtuale, possono interagire tra loro usando un proprio avatar, che parla con la propria voce, calato in un contesto futuristico totalmente digitale.
Quello che invece forse non tutti sanno è che le falle che la nuova piattaforma ha rivelato non sono state (solo) di natura tecnica, quanto piuttosto riconducibili a condotte che, evidentemente, non cambiano affatto sia che si agisca in contesti reali che virtuali.
Pochi giorni dopo il suo lancio, infatti, una ricercatrice (una “beta-tester”) del programma ha raccontato che, una volta entrata nell’ambiente virtuale, è stata subito avvicinata e accerchiata da diversi avatar che le si sono rivolti con epiteti, palpeggiamenti e richieste a sfondo sessuale e che l’hanno a lungo inseguita per quel mondo virtuale, continuando a molestarla, sotto gli occhi di diversi spettatori (altri avatar), «tutti con voce maschile», che scattavano fotografie e giravano filmati, incoraggiando i molestatori.
Si, certo, era ovviamente tutto virtuale, ma non per questo meno traumatico:
«La realtà virtuale è progettata in modo che mente e corpo non percepiscano la differenziare fra esperienza digitale e quella reale. E infatti la mia risposta fisiologica e psicologica è stata come se quella brutta cosa fosse accaduta nella realtà», ha scritto la ricercatrice in un suo post.
Se tutto questo non fosse già assurdo, sarebbe anche ridicolo, dal momento che le reazioni che sono seguite all’episodio sono state - a mio modo di vedere - altrettanto surreali.
Nel magico mondo del reale confuso con l’immaginario (cioè proprio il nostro, non il Metaverso!) l’episodio è diventato un vero e proprio caso giudiziario: siamo negli Stati Uniti, dove pare che la condotta sopradescritta abbia un inquadramento ben preciso (si chiama: sexual harrassment online, ossia la violenza sessuale in rete) e, dunque, benché avvenuta in ambiente virtuale, configura il reato di molestie sessuali, come tale perseguibile.
E difatti la donna (reale), il cui avatar (virtuale) era stato molestato, ha sporto denuncia all’autorità giudiziaria (reale) affinché fossero perseguiti gli individui (reali) i cui avatar (virtuali) si erano resi colpevoli della condotta incriminata!
Ancor più bizzarra di questa sequenza, però, è apparsa la replica di Meta (intesa qui come l’azienda omonima, dunque reale) che, dopo una rapida revisione interna della piattaforma, ha rimproverato la donna per non avere attivato l’apposita funzione “safe zone” (zona sicura) che consiste nel chiudere l’Avatar in una specie di bolla protettiva.
Il diluvio di critiche e le accuse di misoginia non si sono fatte attendere: chiudere l’avatar in una bolla nel mondo virtuale, equivale a dire ad una donna, nel mondo reale, di non uscire da casa per non essere importunata!
Per riparare allo scivolone, i valenti programmatori zuckerberghiani sono stati allora immediatamente messi al lavoro e così, qualche giorno fa, hanno annunciato una nuova impostazione predefinita chiamata “Personal Boundary” (confini personali) che – sul modello pandemico - impone a tutti gli avatar un “distanziamento sociale” di un metro l’uno dall’altro, sia negli ambienti di Horizon Worlds che in quelli di Horizon Venus, l’altro nuovo mondo Meta che ospita spettacoli e concerti. In tal modo, chiunque cerchi di penetrare nello spazio personale di un altro avatar viene bloccato; il tutto nell’intento di sviluppare future norme comportamentali e regole di condotta valide nel mondo virtuale.
Ma mica è finita: della questione abbiamo pensato bene di occuparci anche alle nostre latitudini con ragionamenti estensivi - laddove mancano precedenti e norme specifiche – in vista della necessità di dover fronteggiare situazioni che, nel prossimo futuro, pare che diventeranno più ricorrenti.
Premesso che anche il nostro legislatore ha coniato nuove figure di reato legate all’universo delle tecnologie, si tratta tuttavia di fattispecie in cui la rete viene usata come ‘strumento’ attraverso cui si cagiona, fuori da essa, danno reale a persone reali. E’ il caso della L. 29 maggio 2017, n. 71 sul cyberbullismo e della L. 10 luglio 2019, n. 69 sul c.d. revenge porn (diffusione di materiale multimediale a contenuto sessualmente esplicito senza il consenso della persona ritratta).
Parimenti la giurisprudenza è intervenuta interpretando norme preesistenti alla luce dell’evoluzione tecnologica, così da poter reprimere condotte che, in assenza di previsioni specifiche, sarebbero rimaste impunite in quanto escluse dalla definizione letterale. E’ il caso del cyberstalking, ossia il reato di atti persecutori commessi tramite strumenti informatici o telematici ex art. 612-bis, comma 2, c.p., o la diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3, c.p., cioè la lesione all’onore e alla dignità mediante mezzi di pubblicità diversi dalla stampa, ivi compresi i social network.
Nulla invece è previsto ne è stato ancora affrontato per casi come quello della ricercatrice metaversica, riguardo ai quali va osservato che, per il diritto italiano, la mancanza di un effettivo atto materiale – cioè di un contatto fisico vero e proprio – il “palpeggiamento virtuale” non si può ricondurre nell'ambito della violenza sessuale disciplinata e perseguita dall'art. 609-bis c.p.
Inoltre il nostro ordinamento non prevede un autonomo reato di molestie sessuali, che viene infatti “ricavato” dall’art. 660 c.p. che punisce il reato di ‘molestie alla persona’, intendendole come il comportamento con cui, in luogo aperto al pubblico, si arrechi ad altri molestia o disturbo per motivi meritevoli di rimprovero, riconducendovi quindi anche quelle a sfondo sessuale. Secondo tale ricostruzione, dunque, tra le molestie a sfondo sessuale sarebbero poi ricomprendibili anche quei comportamenti realizzati per mezzo di dispositivi elettronici nel contesto di ambienti virtuali.
Leggo in proposito che da più parti ci si auspica un intervento del legislatore, anche comunitario, specificamente mirato a punire, senza possibilità di equivoci, condotte come quella qui lungamente considerata, al fine di “tutelare la dignità della persona e la sfera privata, massimamente quella sessuale, di ogni individuo, anche quando la stessa possa venire offesa o violata in ambienti completamente virtuali e digitali.”
Ferme restando le mie perplessità sulla reale portata della questione e pur volendo accondiscendere all’urgenza testé richiamata, ciò che resta comunque imprescindibile è che la priorità di interventi si concentri sulle azioni (e relative conseguenze) reali: sarebbe davvero il colmo se, a fronte delle tante, impunite, molestie reali che continuano a sfuggire alle maglie della giustizia, proprio quelle virtuali vadano invece perseguite con più efficacia e rigore.