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Morti annunciate

Autore: Ester Annetta
Nel 2022 erano stati 84.

68 sono stati nel 2023.

Ad oggi, a due settimane appena dall’inizio del nuovo anno, sono già due.

Sono i numeri dei suicidi in carcere. Cifre esorbitanti, che, se rilette in termini di media, fanno circa un morto ogni quattro giorni.

E a questi dati, già di per sé sufficientemente drammatici, si aggiunge la pena delle singole storie celate dietro la fredda conta numerica. Storie di solitudine, sofferenza, abbandono che consentono di rivedere in chiave di umanità anche l’esistenza di coloro che la colpa ha reso reietti ed emarginati.

Per essi, il suicidio altro non è che l’unico ed estremo tentativo di evadere; una fuga da spazi finiti resi ancor più angusti dalla solitudine, da sbarre arrugginite dall’indifferenza, da quadrati di cielo ritagliati in un recinto dove l’aria aperta è comunque chiusa.

Matteo Concetti aveva 24 anni; Stefano Voltolina ne aveva 27.

Sono i primi due nomi che, rispettivamente il 5 e l’8 gennaio scorso, hanno inaugurato il nuovo elenco delle vittime del sistema carcerario italiano. Una lista che sarà certamente destinata ad allungarsi nei prossimi mesi, giacché tra i buoni propostiti per il nuovo anno non pare essere stata contemplata alcuna soluzione alle tante carenze che insistentemente continuano a lamentarsi riguardo al regime detentivo nostrano, prime tra tutte il sovraffollamento e l’insufficienza di personale.

Sono anche questi dati noti: un terzo in più di detenuti rispetto alla capienza massima delle patrie galere; il 20% in meno di personale carcerario. Percentuali destinate poi ulteriormente a crescere se si ha riferimento al numero degli interventi e degli addetti alla funzione pedagogica - che dovrebbe essere garantita e svolta negli istituti detentivi, in quanto strutture costituzionalmente destinate alla finalità del recupero dei reclusi- nonché a quello delle REMS (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) e delle Articolazioni per la tutela della salute mentale (ATSM), destinate, rispettivamente, a chi in carcere non dovrebbe proprio entrarci perché già affetto da disturbi psichiatrici (i c.d. “folli rei”) e a chi, invece, matura proprio in carcere e a causa della reclusione un disturbo mentale (i c.d. “rei folli”).

Matteo Concetti in cella – ancor meno in isolamento – non avrebbe proprio dovuto andarci. Soffriva di bipolarismo da quando aveva 15 anni e la sua condizione era divenuta ancora più ingestibile dacché era caduto anche nella trappola della tossicodipendenza.

Era stato condannato per reati legati alla droga e contro il patrimonio; dapprima gli era stato consentito accesso ad una pena alternativa: lavorare in una pizzeria con l’obbligo di tornare a casa entro una certa ora. Ma quando una sera aveva tardato di un’ora il rientro, il giudice l’aveva spedito in carcere. Aveva retto finché era rimasto in quello di Fermo; ma quando era stato trasferito nel carcere Montacuto ad Ancona, era crollato. Aveva aggredito una guardia e per questo, era finito in isolamento. Alla madre, durante l’ultimo colloquio, aveva detto di essere stato picchiato da un agente della polizia penitenziaria mentre altri due lo tenevano fermo e le aveva annunciato che si sarebbe ammazzato se fosse stato riportato in isolamento, una gabbia gelida senza finestre dove ombre e fantasmi assediavano costantemente la sua mente. E l’ha fatto davvero, impiccandosi col suo lenzuolo nel bagno della cella, quella sera stessa, nonostante la madre avesse allertato chiunque riteneva potesse intervenire: gli agenti carcerari, il cappellano, un infermiere del carcere, gli avvocati. E persino la senatrice Ilaria Cucchi.
Invano.

Troppo complicato organizzare un’adeguata sorveglianza in carceri dove il numero dei reclusi esorbita il consentito, tanto da doverne ammassare in esubero nella stessa cella, mentre quello dei sorveglianti è insufficiente.

Che è quanto succede ovunque, dal Nord al Sud d’Italia.

Stefano, invece, di disturbi mentali non ne aveva. Ad essersi ammalata era invece la sua anima, ferita dal pregiudizio, dall’isolamento e dalla riprovazione che sono spesso una condanna peggiore del carcere.

Lì dentro lui c’era finito infatti per scontare una pena per violenza sessuale.

I detenuti come lui li chiamano “sex offender” e li tengono in “sezioni protette” che finiscono per etichettarli come “infami” oltre che come rei, e pertanto invisi anche agli altri detenuti, secondo un ben preciso codice carcerario che punisce – ulteriormente – gli autori di reati considerati di “riprovazione sociale”.

Non poteva farcela, Stefano, a resistere così fino al 2028, condannato tanto dallo Stato che dagli uomini.

La solarità e l’energia che di lui ha ricordato in una bellissima lettera la sua insegnante delle medie - divenuta poi volontaria in carcere – si erano spente, tanto che aveva quasi faticato a riconoscerlo quando se l’era ritrovato davanti nella biblioteca della casa di reclusione Due Palazzi di Padova.

Attraverso i libri Stefano aveva infatti dapprima cercato di aprire una breccia tra le mura della prigione, di evadere. Ma poi si era arreso, scegliendo una via d’evasione più rapida ed efficace.

Morti annunciate.

Dichiarata, quella di Matteo; prevedibile, quella di Stefano.

Entrambe chiara ed ennesima denuncia di un’urgenza di interventi che continua a rimanere inascoltata o ad essere rimandata una volta spentasi l’eco del biasimo per l’ultimo caso di sopraffazione, l’ultimo suicidio, l’ultima morte misteriosa in cella.

Che, ormai si sa, “ultimi” non saranno mai; almeno finché non si affermerà una sana e concreta volontà di soluzione e, anzi, continueranno a riempirsi le carceri di persone ancora in attesa di un primo grado di giudizio o di nuovi rei, reclutati tra partecipanti a rave party o trafficanti di esseri umani, anziché ricorrere all’applicazione di misure alternative alla detenzione.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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