Benché, sin dal suo conio, la “vaghezza” sia stata una sua precipua caratteristica, tanto da averne consentito interpretazioni varie e diverse, il reato di abuso d’ufficio è nato e ha mantenuto la sua collocazione nel nostro sistema penale a partire dalla sua stessa creazione, quel “codice Rocco” che conta ormai quasi un secolo di vita.
Negli anni è stato sottoposto a più di una revisione, proprio al fine di circoscriverne in maniera più definita l’ambito di applicazione; ma mai si era giunti a ipotizzarne l’eliminazione, giacché, in fondo, la relativa norma è riuscita comunque ad assolvere ad una funzione garantista che, nel contesto dell’esercizio delle funzioni pubbliche, costituisce indubbiamente una priorità ed una precondizione di corretto svolgimento delle stesse.
Il primo intervento di revisione è datato 1990, ed è stato compiuto ad opera del sesto governo Andreotti.
All’epoca effettivamente il reato originario previsto dall’art. 323 c.p. era formulato in maniera decisamente generica, in quanto mirava a perseguire ogni forma di infedeltà del pubblico funzionario che non rientrasse nella fattispecie di altri reati (come corruzione, concussione, omissione di atti d’ufficio, rivelazione di segreto d’ufficio e peculato). La norma puniva pertanto (con la reclusione fino a due anni o una multa da cinquecento a diecimila lire) il pubblico ufficiale che, commettendo, appunto, un’azione non contemplata da altri reati contro la pubblica amministrazione, avesse causato un danno o un vantaggio ad altre persone, abusando dei propri poteri.
La riforma del 1990 si era tuttavia limitata soltanto ad estendere l’applicabilità della norma anche agli incaricati di un pubblico servizio (e non più solo ai pubblici ufficiali) e a introdurre la clausola di riserva, secondo cui l’abuso d’ufficio poteva essere punito se il fatto non avesse costituito un reato più grave. Era stata inoltre introdotta una distinzione tra vantaggio patrimoniale (consistente in denaro) e non patrimoniale ottenuti dalla condotta posta in essere, con conseguente diversa gradazione della pena applicabile.
La seconda revisione c’è stata nel 1997, durante il primo governo Prodi.
Anzitutto era stata eliminata la differenza tra vantaggio patrimoniale e non, introdotta dalla prima revisione, ed era stato invece previsto il principio del “dolo intenzionale”, secondo cui la punibilità del pubblico ufficiale discendeva unicamente dal fatto che egli, con la sua condotta, avesse avuto come unico scopo di procurare un vantaggio (a sé o ad altri) o di arrecare un danno, in mancanza di qualunque interesse pubblico.
Proprio questa seconda formulazione della norma avrebbe amplificato quella “paura della firma” che è una delle accuse maggiori che attualmente le si rivolgono, giacché, soprattutto per i sindaci di piccoli comuni – dove tutti conoscono tutti - il timore di essere accusati di aver favorito amici o conoscenti è più marcato, e induce perciò – si dice - a non prendere decisioni pur di evitare accuse di favoritismi che andrebbero poi smontate in annose vicende giudiziarie.
L’ultimo intervento è arrivato nel 2020 col secondo governo Conte, che, percorrendo la via delle “semplificazioni”, ha ridefinito la norma nella sua attuale formulazione. Salva la clausola di riserva, dunque, il reato di abuso d’ufficio è configurabile quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, nello svolgimento delle funzioni o del servizio agiscano “in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, ovvero omettano “di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti” procurando intenzionalmente a sé o ad altri “un ingiusto vantaggio patrimoniale” o arrecando ad altri un “danno ingiusto”. La pena è la reclusione da uno a quattro anni.
Dunque sono stati indicati due precisi “paletti”:
- il reato si configura solo in caso di violazione di leggi o di atti aventi forza di legge, non anche in caso di violazione di norme di rango inferiore (es.: i regolamenti);
- le norme violate non devono consentire “margini di discrezionalità”, cioè devono essere chiare e ben delineate e non prestarsi a diverse possibili interpretazioni. Impresa bena ardua nel nostro ordinamento giuridico!
Ora, fatta questa ricostruzione e volendo evitare ogni giudizio che implichi una valutazione - o una posizione - politica, è forse utile analizzare da un punto di vista puramente oggettivo e conseguenziale quali possono essere i risvolti del DDL che proprio nei giorni scorsi ha conquistato il primo voto a favore nella direzione dell’abolizione dell’art. 323 c.p., sotto l’egida di chi continua a lamentare l’”evanescenza” del reato ivi contemplato.
Il dubbio difatti è se, abolendo l’abuso di ufficio, non si corra il rischio di legittimare condotte che, se oggi hanno ancora un freno giuridico, in futuro potrebbero rispondere soltanto a limiti di carattere morale che – essi sì! – risulterebbero davvero ben più evanescenti.
Rimarrebbero impunite azioni volte a strumentalizzare la funzione pubblica per fini privati e persino quelle aventi mero fine prevaricatorio; si lascerebbero correre, insomma, comportamenti di malaffare pubblico, creando un vuoto di tutela nei confronti dei cittadini che non vedrebbero più salvaguardato l’interesse collettivo dal prevalere di quelli personali o familiari del funzionario di turno. La Legge 190/2012 (legge Severino, che contiene disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica amministrazione) verrebbe poi di fatto ad essere disapplicata, giacché l’eliminazione dell’abuso d’ufficio vedrebbe decadere anche l’effetto della sospensione degli amministratori locali oggi prevista come conseguenza per coloro che hanno subito una condanna in primo grado per il relativo reato.
Se poi l’intento dell’abolizione della norma è quello di evitare lunghi giudizi che spesso si risolvono in un’assoluzione, il rischio non è certo eliminato, giacché, al fine di perseguire una condotta che presenta margini di illiceità – e non solo di illegittimità – gli organi di giustizia potrebbero ricorrere ad interpretazioni estensive di altri reati contro la pubblica amministrazione, instaurando comunque un procedimento ed ovviando in tal modo alla mancanza del reato specifico.
Resta poi da considerare un altro aspetto non certo marginale, che, se non è propriamente di etica giuridica, investe tuttavia obblighi che il nostro Stato è tenuto a rispettare in virtù dell’appartenenza ad organismi sovranazionali cui ha giurato fedeltà, e che dunque possono considerarsi d’etica politica. Così, la norma sull’abuso d’ufficio “scacciata dalla porta” rischia difatti di “rientrare dalla finestra”, dal momento che la sua abolizione sarebbe in contrasto con le previsioni dei trattati internazionali: in particolare con la convenzione Onu di Merida (che l’Italia ha sottoscritto e che prevede l’adozione di strumenti di contrasto alla corruzione), nonché con la Direttiva europea anticorruzione, attualmente in discussione, che chiede espressamente l’inserimento della previsione del reato di abuso d’ufficio nell’ordinamento giuridico di tutti gli stati membri.
Quest’ennesima figuraccia si può forse evitare?