Ci sono una serie di luoghi comuni secondo cui le donne sono destinate a svolgere lavori meno qualificati rispetto agli uomini o assegnate a ruoli meno prestigiosi perché meglio compatibili con quelle cure familiari e domestiche che invece - per natura, cultura e tradizione – si ritiene costituiscano la loro principale vocazione.
C’è poi la realtà, che, traducendo il luogo comune in strutturata convinzione, da essa fa discendere come naturale conseguenza una concreta differenza retributiva, rivista al ribasso, per le donne lavoratrici anche se assegnate a mansioni lavorative uguali o equiparabili a quelle maschili.
Tale meccanismo si aziona prevalentemente nell’ambito del lavoro dipendente e, per via della sua frequenza, ha ormai assunto una ben precisa connotazione ed un nome (canonicamente inglese): gender pay gap.
I numeri, statisticamente rilevati sia a livello nazionale che internazionale, confermano che tale tendenza è radicata pressoché in tutti i Paesi europei, con margini più o meno differenti, e si associa, inevitabilmente, anche alla diversa consistenza del tasso di occupazione femminile rispetto a quello maschile e al divario di qualifiche professionali rivestite.
Lasciando da parte cifre, percentuali e statistiche ampie e diffuse e soffermandoci, invece, sui dati di fatto prettamente nostrani, quello di maggiore evidenza sembra essere il persistere della tendenza appena riferita nonostante la presenza, nel nostro ordinamento giuridico, di norme puntuali finalizzate all’azzeramento di tale divario. In termini matematici si direbbe, anzi, che sussiste tra la marcata tendenza alla svalorizzazione del lavoro femminile e la normativa di contrasto un paradossale rapporto di proporzionalità inversa, per cui, nonostante i progressi anche culturali compiuti dalla nostra società, certi retaggi stentano ad essere sradicati.
Già l’art. 37 della nostra Costituzione (che ha ormai più di settant’anni) ha previsto espressamente che “
La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”, ma con ogni evidenza, più che la corretta applicazione di tale principio pare essere stata forzata l’interpretazione di quanto prescritto nel comma successivo - ove si specifica che “
Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione” – nel senso di assecondare più il ruolo domestico della donna che la sua capacità lavorativa.
Successivamente, anche il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea ha rafforzato il principio della parità salariale tra uomo e donna (l’art. 157 - ex articolo 141 del TCE- dispone: “
Ciascuno Stato membro assicura l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore” precisando ulteriormente, al successivo comma 4, che “
Allo scopo di assicurare l'effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l'esercizio di un'attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali.”); ma, più tardi ancora, c’è stato bisogno di coniare un Ministero ad hoc e varare un “Codice delle pari opportunità” (D. Lgs. 11 aprile 2006 n. 198, art. 28: “È vietata qualsiasi discriminazione, diretta e indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale”) per sostenere ancora principi tendenti al superamento della distanze di genere.
Ne è passato di tempo da quando nel 1791, durante la Rivoluzione francese, Olympe de Gouges si appellò per la parità tra uomini e donne nei diritti sociali, economici e politici, stilando la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”! Eppure certi temi – e le problematiche ad essi connesse – continuano e rimanere attuali, a reiterarsi, mostrando solo in apparenza di rimodellarsi e rispondere all’innovazione ed allo sviluppo sociale, economico e politico. Nella sostanza serve invece continuare a riproporli, a rimarcarli a ripeterli tante volte quante serve a che finiscano per giovare.
Sempre per restare in Italia, l’ulteriore e più recente tra questi “repetita” è la legge sulla parità salariale tra i generi approvata in via definitiva lo scorso mercoledì in Senato dopo che il 13 ottobre scorso aveva già superato il vaglio della Camera.
Il testo della legge – che è il risultato della combinazione di una serie di proposte di legge avanzate nel corso di questa legislatura – si compone di sei articoli che integrano il Codice delle pari opportunità e altre disposizioni sul gender gap in ambito lavorativo.
- L’articolo 1, modificando l’art. 20 del Codice, trasferisce dal Ministro del Lavoro ad una figura apposita (l Consigliere o la Consigliera nazionale di parità) il compito di “redigere ogni due anni una relazione di monitoraggio sulla disparità di genere in ambito lavorativo”;
- l’articolo 2, modificando l’art. 25 del Codice, aggiunge altri casi di discriminazione sul lavoro a quelli già contemplati. In particolare tra le discriminazioni indirette (cioè quei comportamenti apparentemente neutri che possono mettere le donne in quanto tali in una posizione di svantaggio) include “la modifica delle condizioni e dei tempi di lavoro che sfavoriscono in ragione del sesso e delle esigenze familiari”;
- l’articolo 3 prescrive per le aziende con più di 50 dipendenti (anziché con più di 100 dipendenti, com’era prima) l’obbligo di “redazione di un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile” in base a diversi parametri (quanti lavoratori e quante lavoratrici sono presenti; le differenze tra gli stipendi, l'inquadramento contrattuale, le mansioni; i metodi di reclutamento del personale e le misure per la conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita), prevedendo una multa per chi non trasmette i dati o fornisce informazioni non veritiere. Su base volontaria, anche le aziende che impiegano meno di 50 dipendenti possono fornire lo stesso report;
- l’articolo 4 inserisce nel Codice l’articolo 46-bis, che istituisce, a partire dal primo gennaio 2022, la «certificazione della parità di genere», un sistema finalizzato ad attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere;
- l’articolo 5 indica gli sgravi fiscali riconosciuti alle aziende “virtuose” che ottengono tale certificato (sgravio contributivo pari "all'1% dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, nel limite massimo di 50 mila euro annui, riparametrato e applicato su base mensile con decreto del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali);
- l’articolo 6, infine, dispone “l’equilibrio di genere negli organi delle società pubbliche” non quotate, estendendo ad esse le disposizioni di cui al comma 1-ter dell’articolo 147-ter del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, in base al quale il genere meno rappresentato deve ottenere almeno due quinti degli amministratori eletti.
Ancora una volta di contenuti ce ne sono tanti e l’ambito cui le norme si rivolgono è abbastanza esteso.
Ora non resta che verificare se, da qui in avanti, potrà darsi conferma al tanto auspicato “iuvant”.