Il Rapporto Annuale ISTAT 2023, presentato a inizio luglio a Montecitorio, ha evidenziato, tra le tante criticità riscontrabili sulla popolazione anche in ragione delle diverse fasce d’età (nello specifico, si tratta di deprivazioni variamente diffuse nei domini chiave del benessere: istruzione e lavoro, coesione sociale, salute, benessere soggettivo, territorio), un dato molto preoccupante: la trasmissione intergenerazionale della povertà. Significa che in Italia, in maniera molto più intensa che nella maggior parte dei Paesi UE (solo Romania e Bulgaria registrano dati peggiori) la povertà “si eredita” di padre in figlio: quasi un terzo degli adulti - tra 25-49 anni - a rischio povertà, già a 14 anni viveva in famiglie che si trovavano in condizioni economiche critiche.
Se poi a ciò si aggiunge che l’Italia per le prestazioni sociali erogate alle famiglie e ai minori, spende rispetto al Pil, una quota molto esigua (l’1,2% a fronte del 2,5% della Francia e del 3,7% della Germania) la conclusione quasi certa è che chi nasce povero è perlopiù destinato a rimanere povero!
Mi soffermo a considerare queste statistiche appena dopo aver letto un’altra notizia che, per una curiosa coincidenza, sembra fornire un esempio concreto di quali possono essere – in estremo – le conseguenze d’uno stato di cose tanto drammatico.
Più di una volta la piccola cronaca ha riportato episodi di persone disagiate – anziani perlopiù – sorpresi a rubare generi alimentari nei supermercati per l’impossibilità di acquistarli. Altrettanto spesso in quei casi un moto di generosità e di solidarietà da parte delle stesse forze dell’ordine intervenute ha sanato la vicenda: sono stati proprio gli agenti a pagare la refurtiva scongiurando così una denuncia contro il colpevole.
E forse resta proprio questo l’unico modo per sottrarre alle maglie della giustizia chi ruba per fame, giacché, con una recente pronuncia, la Cassazione ha invece ribadito un orientamento – ormai consolidato - secondo cui lo stato di bisogno non è sempre una scriminante idonea a giustificare una condotta che, se pure motivata dalla fame, costituisce reato.
Con la sentenza n. 21900/23, la Quinta Sezione Penale ha difatti sostenuto che “la causa di giustificazione dello stato di necessità deve essere ricollegabile ad un bisogno impellente, e dunque a una sottrazione minimale, esigua, destinata ad una immediata soddisfazione dell'esigenza alimentare (non diversamente soddisfabile e purché pur sempre imposta dalla necessità di evitare il pericolo di un danno grave alla persona).”
Il caso su cui è intervenuta la Corte riguardava un uomo senza fissa dimora che, giudicato nei precedenti gradi di giudizio responsabile di furto di generi alimentari, aveva fatto ricorso lamentando, appunto, la mancata applicazione della scriminante dello stato di bisogno, ex art. 54 c.p., ricollegabile al proprio stato di indigenza economica.
La Cassazione, tuttavia, ha ritenuto inconfigurabili nella fattispecie un pericolo attuale di un danno grave alla persona; il requisito dell'assoluta necessità della condotta; l’l'inevitabilità del pericolo non volontariamente causato nonché la mancanza di proporzione tra fatto e pericolo, giacché quello sottratto dall’imputato era un ben consistente quantitativo di generi alimentari.
L'asserita situazione di indigenza, secondo la Cassazione, non è di per sé idonea ad integrare la scriminante dello stato di necessità, stante il difetto degli elementi dell'attualità e dell'inevitabilità del pericolo, “atteso che alle esigenze delle persone che versano in tale stato è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale.”
Essa ha ritenuto che “lo stato di bisogno dell'imputato non possa integrare di per sè la scriminante di cui all'art. 54 c.p.” e che “non possa essere riconosciuto al mendicante che si trovi in ristrettezze economiche, perché la possibilità di ricorrere all'assistenza degli enti che la moderna organizzazione sociale ha predisposto per l'aiuto agli indigenti ne esclude la sussistenza, in quanto fa venir meno gli elementi dell'attualità e dell'inevitabilità del pericolo grave alla persona.” Inoltre, la circostanza della destinazione del bene a soddisfare un bisogno alimentare non esclude la configurazione del furto, “trattandosi pur sempre di un bene avente valore economico il cui impossessamento realizza un vero e proprio profitto laddove la destinazione al nutrimento si risolve nell'uso di cui l'autore dell'impossessamento fa del bene.”
In conclusione, la Corte ha ribadito il principio secondo cui “lo stato di necessità, quale causa di non punibilità di cui all'art. 54 c.p., deve consistere in forze estranee alla volontà dell'agente, che costringono costui ad agire in modo contrario al diritto penale obiettivo per sottrarre se stesso od altri al pericolo di un danno grave alla persona; il soggetto, in altri termini, si deve trovare di fronte all'alternativa o di attendere inerte le conseguenze di un danno inevitabile alla propria od all'altrui persona ovvero di sottrarsi ad esso mediante un'azione od un'omissione prevista penalmente dalla legge. Non può pertanto integrare la esimente dell'art. 54 citato lo stato di bisogno attinente all'alimentazione (eccetto i casi più gravi di indilazionabilità), perché la moderna organizzazione sociale, con vari mezzi ed istituti, appresta agli inabili al lavoro ed ai bisognosi quanto ad essi occorre, eliminando il pericolo di lasciarli privi di cure o di sostentamento quotidiano.”
Ora, però, alla luce delle risultanze del Rapporto ISTAT, laddove si è evidenziata l’esiguità della spesa che l’Italia destina alle prestazioni sociali erogate alle famiglie e ai minori, viene il legittimo il dubbio che una condizione di bisogno possa essere ben più diffusa e frequente di quanto supposto!