31 ottobre 2020

Se il farmaco è prescritto al telefono

Autore: Ester Annetta
Pronunciandosi con sentenza n. 28847/2020, la Corte di Cassazione- Sez. V Penale ha ritenuto sussistere il reato di falso ideologico ex art. 481 c.p. (falso ideologico in certificati commesso da persone esercenti un servizio di pubblica necessità), a carico del medico che prescriva un farmaco al telefono sotto dettatura, anche se la ricetta utilizzata è “bianca” e non “rossa”.

La pronuncia ha così confermato quanto già deciso dalla Corte d’Appello che aveva così riconfigurato il reato individuato in primo grado dal Tribunale (secondo cui la fattispecie configurabile era quella di cui all’art. 480 c.p., falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in certificati o in autorizzazioni amministrative) nei confronti di un medico che aveva prescritto un medicinale – utilizzando le ricette “bianche” - solo per fare un favore a un amico farmacista, che aveva venduto un farmaco senza chiedere la necessaria ricetta.

Nell’impugnare la sentenza di condanna, la difesa del ricorrente aveva sostenuto non configurabile il reato contestato in quanto le ricette emesse dal medico giudicato non sono riferibili al SSN, trattandosi di ricette così dette “bianche”, ossia ricette libere del medico di base, il quale, pertanto, in tale ipotesi, non è qualificabile come pubblico ufficiale, bensì come esercente una professione sanitaria. Di conseguenza tali ricette non costituiscono certificati bensì sono solo scritture private aventi natura autorizzativa “posto che non contengono alcuna attestazione di fatti di cui l’atto stesso è destinato a provare la verità, trattandosi di ricette su carta bianca in cui si prescrive un farmaco senza dare atto di uno stato patologico, quindi prive di valenza certificativa ed a contenuto meramente autorizzatorio, con cui il medico rimuove l’ostacolo che la legge frappone fra il cittadino ed il farmacista al momento dell’acquisto di un farmaco di cui è, appunto, consentita dalla legge la vendita solo se l’utente si munisca di apposita autorizzazione”.

La Suprema Corte, invece, nel ribadire la sussistenza, nella specie, del reato di cui all’art. 481 c.p., ha con l’occasione chiarito anche la differenza tra il ricettario rosso (che può essere compilato solo dai medici dipendenti di strutture pubbliche o convenzionate con il SSN e viene utilizzato per la prescrizione di una terapia farmacologica, di un esame diagnostico o di una visita specialistica a carico del detto Servizio) e quello bianco (quello, cioè, con la sola intestazione del medico), ricordando che la prescrizione effettuata su quest’ultimo – usato quando il medico svolge attività privata, intramoenia compresa - presuppone un accertamento della sussistenza di un patologia che giustifichi la somministrazione del prodotto, a prescindere dall’obbligo di indicare la diagnosi. E si tratta di una ricognizione diretta, imposta anche dal Codice deontologico medico che obbliga i sanitari ad indicare nelle ricette solo dati clinici constatati (art.22).

A tal ultimo riguardo la Cassazione si è rifatta a proprie precedenti pronunce, rilevando che la prescrizione farmacologica non può essere considerata “la mera riproduzione di un fatto già rappresentato da altri documenti; esso, infatti, presuppone un’attività di accertamento diretto da parte del sanitario che emette la prescrizione, che si pone in rapporto di funzionalità con il contenuto della certificazione stessa. Detta attività di accertamento diretto può assumere varie forme, a seconda dei casi, ma non può certamente basarsi sulla mera riproduzione di una semplice notizia, in quanto, nel prescrivere un farmaco specifico, il sanitario attesta che il soggetto fruitore appartiene ad una delle categorie rispetto alle quali il farmaco è destinato a produrre i propri effetti. Detta attestazione si può basare, evidentemente, su svariate modalità ricognitive: su di una specifica visita del paziente, ovvero sul colloquio personale del medico con il paziente che gli riferisce determinati sintomi, ovvero ancora sullo svolgimento di esami clinico-diagnostici, sulla pregressa conoscenza del paziente da parte del medico e sulle pregresse cure allo stesso somministrate, modalità tutte che, in ogni caso, implicano una cognizione diretta della specifica situazione rispetto alla quale la prescrizione si pone come necessaria. Ciò che rileva, infatti, non è la specifica modalità ricognitiva a monte dell’attestazione, bensì la circostanza che un’attività diretta di ricognizione vi sia stata”.

In sostanza, l’intento della richiamata norma deontologica, secondo la Cassazione, è quello di disinnescare la cattiva prassi del medico di prescrivere un farmaco semplicemente colloquiando al telefono con un assistito mai incontrato che gli descriva i suoi sintomi, senza averlo mai visitato e senza neanche conoscerne, ad esempio, le potenziali reazioni allergiche ad un determinato farmaco.

La prescrizione di un medicinale presuppone, in linea generale, che il medico abbia visitato il paziente e abbia riscontrato l’esistenza di una patologia o di un disturbo per la cui cura è necessario il farmaco prescritto. Ovviamente se il medico conosce il paziente ed è a conoscenza del tipo di patologia da cui è affetto (ad esempio nel caso di malattie croniche), può anche rilasciare la ricetta senza dover necessariamente visitare ogni volta il paziente. L’importante, però, è che il medico non rilasci mai ricette “al buio”, senza essere sicuro della patologia esistente o basandosi soltanto su quanto gli viene riferito, senza aver provveduto a riscontrare oggettivamente la sussistenza della patologia.
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