Mia nonna diceva sempre: “Non uscire mai di casa senza soldi in tasca, perché se la città dovesse vendersi per sole 100 lire, perderesti un’occasione”.
Erano evidentemente altri tempi. C’erano intanto le Lire, che, a memoria d’uomo, avevano di gran lunga un potere d’acquisto maggiore di quanto non ne abbia avuto in seguito l’Euro. Ma soprattutto mancava la scelta circa gli strumenti di pagamento da impiegare: il denaro contante era l’unico a consentire la possibilità di un acquisto immediato, giacché le sole alternative possibili – assegni, bonifici, persino cambiali – non godevano di altrettanta, rapida, sicurezza né erano impiegabili per acquisti di valore irrisorio.
Col tempo si è passati a metodi di pagamento sempre più “astratti” (prerogativa che una volta spettava ai soli “titoli di credito”, come spiegavano i vecchi testi di diritto commerciale) cui ha fatto seguito la diffusione di una modalità altrettanto priva di fisicità degli stessi acquisti. Da un lato, si è dunque sviluppato un sistema di pagamento mediante utilizzo di carte di debito o credito; dall’altro, lo shopping reale ha progressivamente ceduto il passo a quello “virtuale”, affidato ai vari siti di e-commerce, che hanno finito per soffocare persino il gusto di una piacevole passeggiata tra le vetrine dei negozi.
L’ulteriore passo è stato la nascita dei portali di home-banking che non solo consentono la visione e gestione in tempo reale delle proprie disponibilità finanziarie su banche virtuali - che clonano, rendendole a portata di tasca, quelle reali - ma che in più, permettono di associare le proprie carte di pagamento a portafogli (“wallet”) altrettanto virtuali caricati sui propri cellulari. Il risultato è che la vecchia scusa “ahimè, ho dimenticato il portafogli a casa” non regge più, dal momento che non serve portarsi appresso la tesserina plastificata da “strisciare” per poter acquistare ma è sufficiente avvicinare il proprio cellulare al Pos e attendere il breve segnale acustico che conferma l’avvenuto pagamento.
Ne è conseguito, in breve, che i pagamenti in contanti sono diventati sempre più rari, appannaggio perlopiù delle generazioni datate: quelle che ancora fanno la fila alla posta per prelevare la pensione in contanti (giacché tenere le banconote in mano dà un maggior senso di possesso e conservare i risparmi in casa li fa sentire più controllati e al sicuro) e che guardano sbalorditi e confusi chi, alla cassa del supermercato, paga avvicinando il telefonino al terminale del Pos.
Immaginiamo quanto maggiormente potrebbero apparire disorientati se prendesse piede la nuova App di Apple Pay – sperimentata in questi giorni - che consente di pagare con l'orologio Apple Watch!
Mia nonna non si sarebbe mai capacitata all’idea che non servisse avere in tasca denaro frusciante per comprare la città qualora fosse stata svenduta!
Questa riflessione è evidentemente agganciata ad una questione di cui si sta facendo un gran parlare in occasione della prossima approvazione della manovra economica del nuovo governo. Il tema che tiene banco è, com’è noto, quello del limite minimo per i pagamenti con pos e del correlato dibattito sui costi delle commissioni.
Non mi addentro in questioni (che non mi competono) sul peso che queste ultime hanno sulla bilancia dei pro e contra dei pagamenti elettronici: sulla singola transazione sono esigui, ma sommati tra loro finiscono per diventare cifre considerevoli, poiché – come avrebbe detto sempre mia nonna – “tanti poco fanno assai”.
Tra l’altro, secondo la discussione in atto in questi giorni, parrebbe che delle commissioni ci siano anche sulle transazioni in contanti (anche se risultano meno evidenti) e non sono meno gravose di quelle che incidono sui pagamenti elettronici.
Tuttavia, badando al pratico, sono di tutta evidenza la desuetudine ormai consolidata dell’utilizzo del contante; la comodità dell’utilizzo di mezzi alternativi che riduce la frequenza dei prelievi agli sportelli bancomat; la prevalenza del ricorso a pagamenti elettronici proprio per cifre inferiori a quel tetto di 60euro che ora si vorrebbe come soglia al di sotto della quale non sussisterebbe più un obbligo dell’esercente di accettarli.
Di contro, però, viene da domandarsi se il motivo di tanto clamore – e soprattutto di tanto favore da parte dei commercianti alla proposta accennata – sia davvero quello di sgravarsi del peso di commissioni su importi troppo bassi o piuttosto non sia quello di avere più margine per eludere l’obbligo di emissione di scontrini fiscali su importi piccoli, che si tradurrebbe in una considerevole evasione ove si sommino tra loro, valendo anche qui il già menzionato criterio dell’”assai” derivato dai “tanti poco” messi insieme.
Nel dubbio, la buona fede tende sempre a soccombere.
Perciò, quando si reclamano comprensione e trasparenza sarebbe auspicabile che esse ci fossero da parte di tutte le componenti in causa e per ogni singolo aspetto delle questioni affrontate.
Si rischia altrimenti che, sotto le mentite spoglie di un diritto o di un vantaggio rivendicato, vada a nascondersi un fine recondito che saprebbe di raggiro. Ai danni (e in beffa), ovviamente di quella minoranza che si affanna a mantenersi nella cornice della legalità.
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