7 ottobre 2023

Tutori della Legge

Autore: Ester Annetta
Si è appellato all’obbligo che gli fa carico per legge il sindaco di Muggia, Paolo Polidori, per richiamare l’attenzione forse più su sé stesso che sulla pretesa protesta che ha allestito. Perché è questo che viene difatti da pensare di fronte alla opinabile modalità con cui ha deciso di accogliere (si fa per dire) due migranti minorenni, sopravvissuti - chissà a quale costo – alla traversata della famigerata rotta balcanica che termina ai confini della sua regione.

Per legge (è bene ribadirlo), deve farsi carico e tutelare i minori non accompagnati presenti sul territorio che amministra: deve perciò attivare i servizi sociali e soccorrere ai loro bisogni primari, offrendo loro adeguata collocazione in strutture idonee.

Dandosi però il caso che di tali strutture non ve ne fossero in numero congruo o fossero già impegnate, ecco che il primo cittadino ha inscenato quella che qualcuno ha definito una protesta provocatoria, che però si è guardato bene dal tingere dei colori di una precisa bandiera. Piuttosto, ne ha fatto una questione di decenza, ecco tutto.

Quindi ha sistemato i due ragazzini in un locale comunque appartenente al Comune, ma senza luce e senza acqua; ha fatto allestire due brandine, fatto portare una tanica d’acqua e qualche tramezzino e – ovviamente vantandosi di averlo fatto – ha passato la notte in auto, all’esterno del locale, per sorvegliarlo.

A giustificare il gesto, la premura di non gravare sulle casse comunali che avrebbero altrimenti dovuto sostenere il costo di una camera d’albergo dove quei due mocciosi avrebbero potuto persino trascorrere una notte serena, in un letto vero, e servirsi di un bagno vero! Decisamente troppo!

Ma non è tutto, perché l’ulteriore messaggio affidato alla “provocatoria protesta”, voleva essere quello che non si possono gravare i sindaci di certe responsabilità, giacché – è bene che si sappia – sono coloro su cui in finale ricadono tutte le problematiche del fenomeno migratorio e, in particolare, quella dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati.

Domando: quanta ipocrisia, quanto becero protagonismo si cela in questa storia, di cui finiscono per essere strumento due poveri ragazzini che la pietà umana invocherebbe di accogliere finanche in casa propria?!

Eppure non è parso che si siano alterati equilibri istituzionali di fronte al gesto di quel sindaco: la vicenda è stata lasciata esposta al libero giudizio di un’opinione pubblica più o meno credulona, senza sottolineature né tratteggi, come il classico sasso gettato nello stagno!

Non così è stato invece per un altro tutore della legge (in senso tecnico stavolta) contro cui quelle stesse istituzioni hanno invece infierito con grande animosità, nell’intento di spogliare la sua decisione degli abiti della giustizia per rivestirla dei panni della politica.

Il giudice Iolanda Apostolico del Tribunale di Catania - “colpevole” di aver negato la convalida del trattenimento di un cittadino tunisino richiedente asilo - di tanto, infatti, si vorrebbe accusare: d’aver seguito più la sua ideologia, le sue simpatie, i suoi orientamenti politici, disattendendo dunque le prescrizioni di un decreto fresco di conio.

Quando invece proprio la sua applicazione sarebbe stata, si, un atto di deferenza politico.

Lo ha scritto chiaramente, il giudice, nella sua sentenza, che quel decreto battezzato col nome di una tragedia è illegittimo, che il richiedente asilo non può essere trattenuto al solo fine di esaminare la sua domanda (art. 6, co. 1 D.lgs. 142/2015); che il trattenimento deve considerarsi misura eccezionale e limitativa della libertà personale ex art. 13 della Costituzione. Lo ha sostenuto sulla base di norme (è bene ribadirlo anche qui) gerarchicamente superiori, che ha richiamato espressamente nella loro puntualità, così argomentando: «la Corte di giustizia dell'Unione Europea -Grande Sezione-nella sentenza 8 novembre 2022(cause riunite C-704/20 e C-39/21), ha chiarito che “l'articolo 15, paragrafi 2 e 3, della direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, l'articolo 9, paragrafi 3 e 5, della direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, e l'articolo 28, paragrafo 4, del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, in combinato disposto con gli articoli 6 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, devono essere interpretati nel senso che il controllo, da parte di un'autorità giudiziaria, del rispetto dei presupposti di legittimità, derivanti dal diritto dell'Unione, del trattenimento di un cittadino di un paese terzo deve condurre tale autorità a rilevare d'ufficio, in base agli elementi del fascicolo portati a sua conoscenza, come integrati o chiariti durante il procedimento contraddittorio dinanzi a essa, l'eventuale mancato rispetto di un presupposto di legittimità non dedotto dall'interessato. Gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33/UE “devono essere interpretati nel senso che ostano, in primo luogo, a che un richiedente protezione internazionale sia trattenuto per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità, in secondo luogo, a che tale trattenimento abbia luogo senza la previa adozione di una decisione motivata che disponga il trattenimento e senza che siano state esaminate la necessità e la proporzionalità di una siffatta misura” (CGUE (Grande Sezione), 14 maggio 2020, cause riunite C-924/19PPU e C-925/19PPU).»

Su tali basi ha perciò ritenuto: che la normativa interna sia incompatibile con quella dell’Unione e vada dunque disapplicata dal giudice nazionale ( Corte cost., 11 luglio 1989, n. 389); che il provvedimento del Questore con il quale è stato disposto il trattenimento del migrante non sia corredato da idonea motivazione; “che sia mancata ogni valutazione su base individuale delle esigenze di protezione manifestate, nonché della necessità e proporzionalità della misura in relazione alla possibilità di applicare misure meno coercitive.”

C’è poco da restare “basiti” di fronte a tanta coerenza: equivarrebbe altrimenti a sorprendersi che lucidità ed integrità guidino le decisioni dei giudici…a meno che non si scelga l’arma del discredito, insinuando che a guidarle siano principi d’altra indole che non la legalità!

Saggia appare allora la risposta del giudice inviso: “Il mio provvedimento è impugnabile con ricorso per Cassazione, non devo stare a difenderlo. Non rientra nei miei compiti. E poi non si deve trasformare una questione giuridica in una vicenda personale.”

Forte, chiaro e diretto. Ed incredibilmente vicino, tra le righe, a quel “non potevo lasciarlo solo” con cui, pochi giorni fa, un migrante minorenne sbarcato a Lampedusa ha spiegato il perché fosse arrivato tenendo per mano un bambino di tre anni, di cui nemmeno conosceva il nome, trovato solo lungo la traversata del Sahara.
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