6 aprile 2024

Vis grata puellae

Autore: Ester Annetta
In un passato che si può definire remoto, benché non temporalmente, la giurisprudenza italiana in tema di violenza sessuale è stata davvero tremendamente arretrata. Una nota sentenza dalla Cassazione del 20 febbraio 1967- divenuta per questo il simbolo di tanta grossolanità - aveva difatti enunciato una massima che, vista con le lenti dell’attualità, non può che definirsi aberrante: costituisce violenza qualsiasi impiego di forza fisica esercitata sull’altrui persona, maggiore o minore, a seconda delle circostanze, che abbia posto il soggetto passivo in condizione di non poter opporre tutta la resistenza che avrebbe voluto; mentre “non può raffigurarsi violenza in quella necessaria a vincere la naturale ritrosia femminile, destinata a crollare al primo squillo di tromba come le mura di Gerico”.

Un tale principio finiva per legittimare - agli occhi della giurisprudenza ma anche dell’opinione pubblica - l’idea che alle donne piacesse subdolamente essere violentate: “Vis grata puellae”, insomma, ossia "la violenza è gradita alla fanciulla".

L’espressione è tratta da un verso dell’opera latina di Ovidio “Ars amatoria” (Liber I, l. 673-674: “vim licet appelles: grata est vis ista puellis: quod iuvat, invitae saepe dedisse volunt”, che significa: “Chiamala pure violenza! Questa violenza piace alle donne: vogliono dare come per forza ciò che a loro piace!”) e viene usata per indicare quel gioco di ruoli per cui, nel contesto della seduzione, non è mai la donna a prendere l’iniziativa sessuale né tanto meno è lei a cedere subito alle profferte amorose dell’uomo, dovendo anzi mostrarsi pudica e ritrosa per non sembrare spudorata. In quest’ottica, dunque, la violenza eventualmente esercitata dall'uomo per vincere la resistenza della donna risulterebbe gradita a quest’ultima.

Da quella sentenza sono passati altri trent’anni prima che la visione da essa suggerita fosse superata e fosse anzi riformulato l’intero impianto della normativa sulla violenza sessuale. È accaduto con la Legge n. 66 del 1996, il cui lungo e tormentato iter ha infine introdotto due fondamentali novità, divenute pietre miliari nella storia dei diritti delle donne.

La prima è stata la trasformazione della violenza sessuale da reato contro la moralità pubblica e il buon costume – come l’aveva configurato il codice Rocco – in reato contro la persona: un passaggio non indifferente, che sottolineava l’attribuzione della sessualità come diritto della singola persona e non di un’astratta collettività governata dai suoi principi morali; la seconda, è stata quella di aver unificato i reati di libidine violenta e di violenza carnale sotto l’unica fattispecie di reato di violenza sessuale, con l’intento di superare una pratica molto ricorrente nei tribunali, per cui, attraverso il minuzioso accertamento delle materiali modalità di svolgimento dei fatti, si arrivava spesso a trasformare le donne vittime di violenza in imputate.

Rimane traccia dell’anacronistica visione della violenza sessuale antecedente a questa riforma in una appassionata e memorabile arringa pronunciata dall’avvocato Augusta Tina Lagostena Bassi in un processo tenutosi nel 1978 (divenuto anche un seguitissimo documentario trasmesso dalla RAI l’anno dopo), con la quale, compiendo un’iperbolica ricostruzione (che dapprima passava proprio dalla rappresentazione della vittima come colpevole per essere poi destrutturata) lasciava emergere chiaramente la contestazione del principio – sostenuto dall’avvocato della difesa – che la “passività colpevole" della vittima di violenza sarebbe stata in realtà la prova del suo consenso.

Oggi, alla luce dei progressi normativi effettuati in tema di violenza contro le donne e di un Codice Rosso che la declina in ogni sua possibile forma, idee e principi come quelli sin qui narrati non dovrebbero ormai più trovare residenza.

Eppure accade ancora. Ed è anzi proprio all’antico brocardo del “vis grata puellae” che provano ancora ad appellarsi alcune “moderne” pronunce giudiziali.

A Palermo, i giudici della Corte d’Appello hanno tirato in ballo proprio quel principio per assolvere un giovane accusato di violenza sessuale, riformando così la sentenza di primo grado che l’aveva invece condannato.

Secondo quell’assunto, alla donna spetta un ben preciso onere di resistenza, forte e continuo, agli approcci sessuali dell’uomo, non essendo sufficiente la manifestazione di un mero dissenso: il semplice rifiuto di un atto sessuale non basta, potendo anzi tradursi in un’espressione di schermaglia amorosa ove non sia accompagnato da una ribellione decisa. E su questo hanno puntato i giudici nel loro verdetto d’assoluzione, rilevando proprio “l’assenza di una reazione fisica” da parte della presunta vittima, nonché “l’assenza di segni esteriori indicativi di una violenza”.

Fortunatamente ancora una volta la Cassazione è intervenuta, dichiarando l’illogicità della motivazione fornita dalla Corte d’Appello. Con la sentenza n. 13222 depositata il 2 aprile scorso, ne ha quindi annullato la pronuncia con rinvio, sottolineando la scelta «anacronistica» di richiamarsi al suddetto brocardo latino, “che cancella secoli di battaglie per la parità dei sessi e i progressi della legislazione”.

La Suprema Corte ha difatti evidenziato, anzitutto, che lo sgomento della vittima può paralizzarla, rendendola incapace di reagire o fuggire; la circostanza che non fugga non significa, perciò consenso. D’altro canto, ha rimarcato la contraddittorietà della decisione impugnata laddove essa, da una parte, sostiene «l’inattendibilità della persona offesa in ordine al dissenso ai rapporti sessuali», mentre dall’altra «afferma che il semplice rifiuto verbale ai rapporti sessuali, comunque manifestato dalla persona offesa, potesse essere interpretato» dal presunto stupratore «come ritrosia, meramente formale e “di facciata”, di una donna alle iniziative erotiche del partner» non comprendendosi, per di più, “quale rilievo probatorio e argomentativo abbia, nel contesto dell’apparato giustificativo della decisione impugnata, il riferimento alla “vis grata puellae”, a fronte di una problematica inerente ad un atteggiamento coercitivo o meno dell’imputato”.
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