19 marzo 2018

Annullamento della cartella o dell’avviso: cade la confisca

Il concetto di profitto del reato ai fini tributari e penali e la permanenza del doppio binario

Autore: Giovambattista Palumbo
Il profitto va identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e, in tema di reati tributari, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente va riferito all'ammontare dell'imposta evasa. Non è però possibile disporre o mantenere il sequestro in caso di annullamento della cartella o dell’avviso da parte della Commissione tributaria, con sentenza anche non definitiva.

Il caso - La Corte di Cassazione, Quarta Sezione Penale, con la sentenza n. 10416 del 24/01/2018, ha chiarito alcuni rilevanti aspetti in tema di definizione del profitto di reato e profili di connessione tra processo penale e tributario.

Nel caso di specie il GIP del Tribunale disponeva il sequestro preventivo, per milioni di euro, nei confronti di una società, ovvero, per equivalente, nei confronti della sua controllante e dei soci/amministratori. Avverso tale provvedimento veniva proposta istanza di riesame, ritenuta parzialmente fondata.

La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione annullava però il provvedimento del Tribunale, rinviandola giudice del merito per una nuova valutazione in ordine all'incidenza dell’annullamento degli avvisi di accertamento da parte del giudice tributario sull’imposta evasa nell'ambito del procedimento penale.

Il Tribunale del Riesame confermava il provvedimento impugnato, rideterminando l’entità del profitto sequestrabile.

Veniva quindi nuovamente proposto ricorso per cassazione, deducendo la mancanza di motivazione con riguardo all'esigenza di valutare l'incidenza della decisione dei giudici tributari, che avevano escluso la sussistenza della pretesa fiscale.

La decisione – I giudici di legittimità, nell’esaminare la questione, evidenziano innanzitutto che, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo, diretto funzionale alla confisca per equivalente, può essere disposto non soltanto per il prezzo, ma anche per il profitto del reato.

Le Sezioni Unite hanno peraltro rilevato che non è rinvenibile in alcuna disposizione legislativa una definizione della nozione di "profitto del reato", laddove tale locuzione assume quindi un'ampia "latitudine semantica" da colmare in via interpretativa (SS.UU., 2.7.2008, n. 26654).

Il profitto, a cui fa riferimento l'art. 240, co.1, c.p., deve comunque essere identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata diretta dal reato e, in tema di reati tributari, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente va riferito all’ammontare dell'imposta evasa, che costituisce un indubbio vantaggio patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita, laddove, per la quantificazione dell’indebito risparmio, deve tenersi conto anche del mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute in seguito all’accertamento del debito tributario.

Nel caso poi di frode fiscale il sequestro preventivo per equivalente non può avere ad oggetto beni per un valore eccedente il profitto del reato, sicché il giudice è tenuto a valutare l'equivalenza tra il valore dei beni e l'entità del profitto, spettando al giudice, che, in sede di riesame, proceda alla conferma del sequestro, il compito di valutarne la corretta determinazione dell'entità.

In tema di reati tributari, del resto, il profitto, confiscabile anche per equivalente, del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, va individuato nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria, con la conseguenza che lo stesso non è configurabile e non è quindi possibile disporre o mantenere il sequestro, in caso di annullamento della cartella da parte della Commissione tributaria, con sentenza anche non definitiva, e di correlato provvedimento di sgravio da parte dell’amministrazione finanziaria.

Nel caso di specie, secondo la Corte, il Tribunale era però caduto in errore, laddove aveva ritenuto chetale principio non fosse pertinente alla vicenda in esame, in quanto fondata su un presupposto diverso e riferita al reato di cuiall'art.11, d.lgs.74/2000, nel quale il profitto deve individuarsi nei beni sottratti alla garanzia della pretesa tributaria, ritenendo dunque che, nello schema delineato dall'art. 11 cit., elemento costitutivo fosse appunto l'idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva, il che presupponeva necessariamente un titolo, cioè un provvedimento esecutivo dell'Amministrazione finanziaria, in assenza del quale non vi sarebbe stata alcune pretesa tributaria da salvaguardare.

Essendo invece, nel caso in esame, in discussione la fattispecie dell'art. 3, d.lqs. 74/2000, nella quale l'attualità della pretesa tributaria non è uno dei presupposti del reato, il giudice penale, secondo il Tribunale, non solo aveva completa autonomia nel valutare la violazione o l'elusione delle norme tributarie rilevanti, ma conservava anche il potere (connaturale al sistema del doppio binario) di condannare anche in caso di pretesa tributaria non attuale.

Secondo la Suprema Corte, tuttavia, tali conclusioni erano errate, dato che, in più occasioni, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto rilevante, ai fini penali, l’annullamento della cartella da parte della Commissione tributaria, anche in vicende processuali nelle quali si discuteva dell'applicabilità di disposizioni penali tributarie diverse dall'art. 11, d.lgs 74/2000.

E seppure sia vero che, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, avente ad oggetto il profitto del reato, rimane inalterato anche in ipotesi di sospensione della esecutività della cartella da parte della Commissione tributaria (Sez. 3, n. 9578 del 17/01/2013),è altrettanto vero che a conclusione opposta deve giungersi nel caso non di sospensione dell'esecutività della cartella, bensì di definitivo annullamento, da parte del giudice tributario, dell'avviso di accertamento.

Conclusioni - Per quanto riguarda la disciplina dei rapporti tra il procedimento penale e quello tributario, vige, come noto, ex art. 20, Dlgs 74/2000, il principio dell’autonomia reciproca delle due sfere di azione (c.d. “doppio binario”).

Il quadro normativo relativo a tale effettiva separazione è però ben diverso.

L’interazione fra le sorti del processo penale e di quello tributario costituisce infatti, sempre più spesso, motivo di difficoltà teoriche e di complicazioni pratiche.

La definizione dell’imposta evasa nei due ambiti, la disciplina del cosiddetto raddoppio dei termini in caso di contestazioni penali e la normativa in tema di indeducibilità dei costi da reato ne sono un esempio.

L’intera materia risulta, anzi, in maniera spesso scomposta, percorsa da linee evolutive del tutto estranee al menzionato schema di autonomia.

Con il D.L. n. 138/2011 si sono introdotte, per esempio, due misure che minano l’asserito parallelismo, prevedendosi la possibilità per l’imputato di fruire delle speciali circostanze attenuanti previste dagli artt. 13 e 14 del D.Lgs. n. 74/2000, a condizione che i relativi debiti tributari siano estinti, anche a mezzo delle procedure definitorie previste dall’ordinamento tributario.

A ciò si aggiunge l’ulteriore misura in forza della quale il cosiddetto patteggiamento ex art. 444 c.p.p. è stato reso esperibile solo qualora trovino applicazione le speciali circostanze attenuanti previste dalle richiamate disposizioni premiali del D.Lgs. n. 74/2000.
Con tali modifiche l’affermata autonomia dei procedimenti viene quindi contraddetta in maniera esplicita.

Per effetto di tali interferenze, infatti, si introducono veri e propri vincoli normativi, in forza dei quali lo svolgimento del rapporto d’imposta diviene dirimente ai fini delle sorti del processo penale e ne condiziona gli sviluppi.

Così facendo, tuttavia, la forzatura del criterio del doppio binario diviene palese e si introduce una (seppure parziale) dipendenza del processo penale dalle vicende amministrative di ordine fiscale (come confermato anche dalla sentenza in commento); il che appare del tutto estraneo allo schema dell’indipendenza reciproca dei due procedimenti, come fissato dal richiamato art. 20 del D.lgs. n. 74/2000.

Ma allora delle due l’una: o il principio viene definitivamente abbandonato, oppure deve essere regolato in maniera organica.
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