11 settembre 2018

Annullamento in autotutela. Revisione condanna non automatica

Autore: Paola Mauro
Il condannato per evasione fiscale può presentare richiesta di revisione, se nel frattempo è intervenuto l’annullamento, in autotutela, della pretesa tributaria; ma ai fini del buon esito dell’azione deve puntualmente argomentare su come le valutazioni espresse dall'Agenzia delle Entrate, alla base dell'indicato annullamento, siano in grado, in concreto, di disarticolare il ragionamento probatorio posto a fondamento del giudizio di penale responsabilità e, conseguentemente, di comportare una pronuncia di proscioglimento.

È quanto ha avuto modo di precisare la Corte di Cassazione (Sez. 3 pen., Sent. n. 39252/2018).

La Suprema Corte ha esaminato il ricorso di un’imprenditrice che ha subito una condanna per il reato di cui all’art. 4 del D.lgs. n. 74 del 2000, divenuta definitiva. La donna ha presentato richiesta di revisione ex art. 630 comma 1 lett. c) c.p.p. alla competente Corte d’appello, allegando le due sentenze tributarie con le quali è stata dichiarata la cessazione della materia del contendere, avendo l'Agenzia delle Entrate annullato, in autotutela, gli accertamenti in capo alla società.

Per la ricorrente, l'atto di autotutela, adottato dell'Agenzia delle Entrate, avrebbe riconosciuto l'inesistenza del credito tributario e, di conseguenza, avrebbe fatto venire meno sin dall’origine l'illiceità della condotta oggetto della condanna penale. Ma la Corte d’appello di Napoli è stata di diverso avviso sicché ha dichiarato inammissibile la richiesta di revisione.

Ebbene, la decisione del Giudice partenopeo ha trovato conferma all’esito del giudizio di legittimità.

Ai sensi dell'art. 631 c.p.p., a pena d’inammissibilità, gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono essere «tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto ai sensi degli artt. 529, 530 o 531». La Suprema Corte, pertanto, rileva che deve ritenersi inammissibile, per manifesta infondatezza, la richiesta di revisione fondata su prove che, sia pur formalmente nuove, sono inidonee ictu oculi a determinare un effetto demolitorio del giudicato (v. Cass. Sez. 5 pen. n. 44925/2017). Proprio questo, a ben vedere, è il caso di specie.

E difatti, nel caso di condanna definitiva per reati tributari, non può considerarsi prova nuova, tale da comportare un effetto demolitorio del giudicato, il mero annullamento in autotutela, da parte dell'Amministrazione finanziaria, dell'avviso di accertamento relativo alle imposte ritenute evase nel giudizio penale, «dovendo l'istante dimostrare» - scrivono gli Ermellini - «che detto annullamento abbia un'incidenza decisiva sul compendio probatorio posto a fondamento del giudizio penale di condanna, tale, quindi, da comportare la pronuncia di una sentenza di proscioglimento ai sensi degli artt. 529, 530 o 531 c.p.p.».

Ne deriva che nel caso di specie la richiesta di revisione non può essere accolta in quanto il ricorso è del tutto generico, posto che si limita – scrivono in conclusione gli Ermellini - «a indicare un mero elemento probatorio, e non anche le conseguenze, desumibili da quel dato, sul materiale probatorio, posto a fondamento dal giudizio di penale responsabilità. Invero, l'affermazione della ricorrente, secondo la quale l'atto di autotutela, adottato dell'Agenzia delle Entrate, con cui è stato annullato l'avviso di accertamento, farebbe venire meno ab initio l'illiceità della condotta contestata si rivela apodittica. In altri termini, la ricorrente avrebbe dovuto puntualmente mostrare come le valutazioni espresse dall'Agenzia delle Entrate, alla base dell'indicato annullamento (che, in ipotesi, possono essere le più diverse), siano in grado, in concreto, di disarticolare il ragionamento probatorio posto a fondamento del giudizio di penale responsabilità e, conseguentemente, di comportare una pronuncia di proscioglimento. Ma, sul punto, il ricorso è totalmente carente».

La Suprema Corte, dunque, ha dichiarato inammissibile il ricorso con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 2.000 euro in favore della Cassa delle Ammende.
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