17 settembre 2018

Cede la casa a un dipendente. Imprenditore condannato

Autore: Paola Mauro
Si configura il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte, ex art. 11 D.Lgs. n. 74/00, nel caso dell’imprenditore che continua a risiedere nell’immobile alienato al dipendente poco dopo la notifica dell’avviso di accertamento fiscale.

È quanto emerge dalla lettura della Sentenza n.38834/2018 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.

La titolare di una ditta individuale ha impugnato la condanna alla pena un anno di reclusione (oltre pene accessorie) pronunciata dalla Corte d’Appello di Firenze - a conferma della decisione del Tribunale di Prato -, in relazione al reato di cui all’art. 11 del D.lgs. n. 74/00.

Poco dopo aver ricevuto la notifica di due avvisi di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, l’imputata ha venduto il compendio immobiliare di sua proprietà a una lavoratrice dipendente dell’impresa.

In seguito alla notifica degli atti impositivi, temendo pericolo per la riscossione, l’Ufficio finanziario chiedeva al presidente della CTP di potere iscrivere ipoteca sugli immobili di proprietà della donna; ma al momento dell’iscrizione dell’ipoteca era emerso che essi erano stati alienati.
I giudici penali hanno rilevato il carattere fraudolento dalla vendita, la quale ha determinato la diminuzione del patrimonio dell’imputata, con frustrazione della sua funzione di garanzia del debito erariale.

In particolare, la Corte di appello fiorentina, nel disattendere i rilievi difensivi, ha osservato che:
  • la finalità di sottrarre i beni alla garanzia del debito tributario si desume con chiara evidenza dal fatto che l'imputata ha continuato a risiedere nel compendio immobiliare costituito da un'abitazione e dall'annesso garage;
  • l'acquirente degli immobili - lavoratrice dipendente dell’imputata -, dal canto suo, non ne ha mai acquisito il godimento, così dando prova che il negozio di vendita non era finalizzato a soddisfare alcun suo interesse;
  • l'importo annuo del mutuo corrispondeva allo stipendio annuo dell’acquirente.

Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto di non potere accogliere il ricorso proposto dall’imprenditrice contro il giudizio di responsabilità espresso dal Giudice di appello.

Ai sensi dell’articolo 11 comma 1 del D.Lgs. n. 74/00,:
  • «È punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l'ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni».

Gli Ermellini hanno ricordato che, ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 11, D.lgs. n. 74 del 2000, è sufficiente che la condotta sia idonea, con giudizio “ex ante”, a rendere inefficace anche in parte la procedura esecutiva. Peraltro la fondatezza o meno del credito erariale non incide sulla sussistenza del reato in parola perché l'oggetto giuridico del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte non è il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia generica data dai beni dell'obbligato, potendo quindi il reato configurarsi persino qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell'imposta e dei relativi accessori.

Rispetto al caso concreto, i Giudici di legittimità rilevano che l'alienazione degli immobili ha determinato oggettivamente la diminuzione del patrimonio dell’imputata e ha frustrato la sua funzione di garanzia del debito erariale. Non a caso il legislatore ha espressamente previsto, quale strumento per consentire all’Erario di non perdere la garanzia del credito, la possibilità di iscrivere ipoteca sui beni del contribuente nei termini e modi previsti dall'art. 22, D.Lgs. n. 472 del 1997; «nel caso di specie, l'alienazione degli immobili ha determinato l'impossibilità di attivare questa specifica forma di tutela del credito erariale. Il fatto che tale cessione sia avvenuta mediante accollo del mutuo residuo costituisce argomento privo di rilevanza poiché tale modalità di pagamento non ha determinato alcun concreto vantaggio a favore dell'Amministrazione procedente».

I Massimi giudici aggiungono che, a differenza di quanto osservato dalla Difesa, il mancato esperimento dell'azione revocatoria non incide sul reato, la cui sussistenza dipende dalla condotta del debitore erariale non dalle iniziative dell'Amministrazione Finanziaria.

È invece rilevante il fatto che l'imputata è titolare dell’omonima impresa individuale, sicché il suo patrimonio garantisce tutti i debiti contratti da essa a qualsiasi titolo.

È altresì rilevante che la ricorrente non abbia nemmeno contestato il mancato godimento dell'immobile da parte dell’acquirente, che costituisce argomento rilevante a sostegno della fraudolenza della vendita.

In virtù di questi rilievi i Supremi giudici hanno dichiarato inammissibile il ricorso e, conseguentemente, hanno disposto la condanna dell’imprenditrice al pagamento delle spese processuali e della somma di 2.000 euro in favore della Cassa delle Ammende.
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