19 ottobre 2018

Conti societari non sequestrabili dopo il fallimento

Autore: Paola Mauro
La Corte di Cassazione (Sez. 3 Pen.), con la lunga Sentenza n. 45574/18, è intervenuta in materia di illeciti tributari commessi nell’interesse di una Società, stabilendo che il sequestro preventivo funzionale alla confisca disposto sui conti correnti societari dopo la dichiarazione di fallimento è illegittimo, poiché in tal caso la misura colpisce beni nella disponibilità della sola curatela.

La Suprema Corte ha annullato senza rinvio l’ordinanza del Tribunale del riesame che ha confermato il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, fino alla concorrenza di € 3.924.453, disposto sui conti correnti di una Società, già dichiarata fallita, e sui beni del suo legale rappresentante, indagato dei reati di cui agli articoli 10-bis e 10-ter del Decreto legislativo n. 74 del 2000.

Il Tribunale di Napoli, adito quale giudice di appello, ha integralmente confermato il provvedimento di sequestro, respingendo l’istanza di revoca avanzata dal Curatore fallimentare, il quale aveva motivato la richiesta deducendo, tra l’altro, che i conti correnti vincolati erano ormai nella disponibilità della curatela e non più della compagine fallita, con la conseguenza che la confisca non poteva operare quanto alla massa attiva del fallimento.
  • Ebbene, con la sentenza in esame, la Suprema Corte ha accolto le ragioni della curatela, disponendo l’annullamento, in via definitiva, del provvedimento di sequestro.

La Suprema Corte si sofferma, in particolare, sulla natura della massa fallimentare su cui, nella specie, la misura reale è caduta, avendo questa attinto le somme in giacenza sui conti correnti intestati alla curatela fallimentare: in essa – spiega il Collegio di legittimità - sono compresi non soltanto i beni facenti parte del patrimonio del fallito, ma altresì, atteso il potere di gestione e di amministrazione demandato alla curatela, i proventi derivati dall'esercizio del suddetto potere che, vuoi per effetto dell'esperimento fruttuoso di azioni revocatorie fallimentari, vuoi attraverso azioni d’inefficacia dei pagamenti post-fallimentari, vuoi a seguito di attività strettamente liquidatorie e comunque di tutte le iniziative portate avanti dal curatore al fine di soddisfare le ragioni dei creditori concorsuali, vengono ad accrescere la massa attiva. Trattandosi di somme che costituiscono il frutto delle attività recuperatorie poste in essere dal Curatore, è evidente, per la Corte, che esse non siano più riconducibili alla compagine fallita.

La peculiare natura dell'attivo fallimentare è pertanto di ostacolo all'applicabilità dell'art. 12-bis D.Lgs. n. 74/2000, posto che la norma – scrivono gli Ermellini - «individua quale limite all'operatività della confisca l'appartenenza dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato a terzi estranei al reato, ovvero l'indisponibilità dei medesimi in capo al reo e dunque alla persona giuridica rappresentata dall'autore del reato. È infatti proprio la suddetta previsione normativa che impone di considerare la disponibilità dei beni appresi dalla procedura fallimentare antecedentemente al sequestro come assorbente, trattandosi di un soggetto terzo, rispetto all'elemento della titolarità formale del diritto di proprietà in capo all'indagato/condannato, astrattamente rilevante nel campo penale, in quanto contestualmente privato del potere di fatto sui medesimi beni».

Si aggiunga che la Società, poiché persona giuridica, non può essere chiamata a rispondere del reato tributario contestato al suo legale rappresentante e a maggior ragione non è passibile della misura cautelare in esame. Pertanto, il sequestro per equivalente disposto nei confronti di una Società fallita deve ritenersi illegittimo anche sotto tale ulteriore profilo.

Come chiarito dalle Sezioni Unite (sentenza Gubert), il vigente ordinamento non contempla alcuna responsabilità penale degli enti, essendo prevista dal D.Lgs. 8 giugno 2001 n. 231 solo una responsabilità amministrativa, che comunque non comprende i reati tributari tra quelli enucleati dagli artt. 24 ss. dello stesso D.Lgs. n. 231, sicché – affermano gli Ermellini - «la Società non è mai il soggetto autore del reato né concorrente nello stesso. Non sussistendo pertanto una base normativa per la confisca per equivalente in capo alla persona giuridica per i reati tributari commessi dai suoi organi, ne consegue che, nel caso di specie, la società fallita nei confronti della quale è stato disposto il sequestro per equivalente, così come non può essere chiamata a rispondere dei reati tributari in contestazione, non può comunque essere destinataria della misura cautelare in esame, tanto più che le somme sequestrate, in quanto corrispondenti ad attività recuperatorie poste in essere dal Curatore a seguito dell'apprensione dei beni della società fallita nella procedura concorsuale, sono riferibili esclusivamente a quest'ultima».

Sulla scorta di questi rilievi, la Suprema Corte ha ritenuto - in accoglimento del ricorso della curatela - di dover annullare senza rinvio l’ordinanza del Tribunale del riesame, con conseguente dichiarazione di inefficacia della misura cautelare reale nei confronti della Società fallita.
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