31 ottobre 2018

L’indebita compensazione dei crediti tributari

Autore: Giovambattista Palumbo
Secondo la giurisprudenza penale della Corte di cassazione, i crediti Iva che possono essere utilizzati per la compensazione sono solo quelli risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche. Se dunque tali dichiarazioni o denunce non sono state presentate dal contribuente, i crediti portati in compensazione vengono considerati inesistenti, con rilevanti conseguenze sia ai fini amministrativi che, soprattutto, penali.

Il caso – La Cassazione, Sez. Penale, con la Sentenza n. 43627 del 3 Ottobre 2018, ha affermato rilevanti considerazioni in tema di indebita compensazione dei crediti.
Nella specie, la Corte di appello di Milano aveva confermato la sentenza del Tribunale, con la quale l’imputato era stato condannato alla pena di un anno e tre mesi di reclusione, perché ritenuto responsabile dei reati di cui agli artt. 5 e 10-quater del D.lgs. n. 74/2000, perché, nella sua qualità di legale rappresentante di una cooperativa, al fine di evadere l'Iva, aveva omesso di presentare la relativa dichiarazione, con evasione di imposta pari ad Euro 203.729, nonché per avere utilizzato in compensazione, omettendo il versamento dell'Iva, crediti inesistenti per Euro 9.335,56.

Nel proporre ricorso per cassazione, il contribuente, per quanto di interesse, deduceva i vizi di violazione e falsa applicazione dell'art. 10-quater D.lgs. 74/2000, avendo la Corte di appello fondato la condanna su una mera presunzione, sprovvista dei requisiti indispensabili per farla assurgere al rango di prova, con riferimento alla inesistenza dei crediti posti in compensazione.
Rilevava la difesa che l'unico dato probatorio richiamato dalla Corte di appello di Milano era costituito dalla testimonianza del funzionario dell'Agenzia entrate, il quale aveva dichiarato che i crediti posti in compensazione erano inesistenti, per il semplice fatto che la società cooperativa non aveva presentato la dichiarazione modello unico SC/2010. Per la difesa, però, tale ragionamento non poteva valere per la responsabilità penale per il reato contestato, perché il credito, per essere inesistente, doveva essere il frutto di una vera e propria artificiosa creazione del contribuente, cosa che, a dire della difesa, non si era verificata nel caso di specie.

La decisione - Il motivo di impugnazione, secondo la Suprema Corte, era infondato.
Evidenziano infatti i giudici di legittimità che, ai sensi dell'art. 17 del Dlgs. n. 241 del 1997, norma esplicitamente richiamata dall'art. 10-quater del D.lgs. 74/2000, i crediti Iva che possono essere utilizzati per la compensazione sono solo quelli risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche: sicché, correttamente, in base alla deposizione del teste, i crediti portati in compensazione erano stati ritenuti inesistenti, perché non si trattava di crediti Iva risultanti dalle dichiarazioni o denunce presentate dal ricorrente.

Osservazioni – L’articolo 10-quater del D.lgs. 74/2000 ha quindi introdotto una fattispecie penale, relativa alle violazioni degli obblighi di versamento, che intende punire la compensazione dei debiti di imposta mediante l'utilizzo di crediti non spettanti, o inesistenti.
Anteriormente alle modifiche apportate dal D.lgs. 158/2015, l’articolo 10-quater individuava la pena applicabile per l’utilizzo in compensazione di “crediti non spettanti o inesistenti” mediante rinvio alla disposizione di cui al precedente articolo 10-bis, che prevedeva, a sua volta, la pena della reclusione da sei mesi a due anni nell’ipotesi di omesso versamento delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta.
A differenza del nuovo testo, quindi, il previgente non operava alcuna distinzione tra crediti “inesistenti” e crediti “non spettanti” ai fini dell’individuazione della pena edittale applicabile.
In sede di riforma, invece, come detto, il legislatore ha disciplinato in modo autonomo le due fattispecie, riservando un trattamento sanzionatorio più pesante all’ipotesi di compensazione con utilizzo di crediti inesistenti, ritenuta (giustamente) maggiormente insidiosa.

Come si può leggere anche nella relazione illustrativa al decreto legislativo citato, del resto, la fattispecie dell’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti presuppone una condotta di natura fraudolenta del contribuente, laddove invece un credito non spettante è quello esistente e “che, pur certo nella sua esistenza e nel suo esatto ammontare, sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile (ovvero non più utilizzabile)” (cfr., Cassazione penale, sentenza 36393/2015).

Lo stesso “sfavore”, peraltro, sussiste anche a livello di sanzioni amministrative tributarie, laddove l’articolo 13 del D.lgs. 471/1997, ai commi 4 e 5, stabilisce un trattamento differenziato per l’indebita compensazione di crediti non spettanti, sanzionati nella misura del 30% del credito utilizzato, e di crediti inesistenti, sanzionati dal cento al duecento per cento della misura dei crediti stessi.
Tutto sta però a verificare che si tratti davvero di crediti inesistenti, laddove, come visto, l’automatica conseguenza che alla omissione della dichiarazione (magari per motivi tecnici o per meri errori etc.) segua, appunto, la definizione di credito inesistente, potrebbe comportare conseguenze molto rilevanti.

Ai fini fiscali, peraltro, in effetti, ai sensi dell’art. 17 del D.lgs. 241/97, citato anche nella sentenza in commento, i crediti utilizzati in assenza di dichiarazione sono considerati come inesistenti.
Nei contenziosi che ne sono seguiti, però, la tesi sostenuta dai ricorrenti, nella maggior parte dei casi, è consistita nel sostenere che, se il credito era stato effettivamente conseguito (quando in effetti era stato conseguito), il fatto che non risultasse dalla dichiarazione (in quanto non presentata) non era comunque sufficiente a ritenerlo inesistente e quindi a disconoscerlo, purchè lo stesso emergesse dalle scritture contabili.
Tale tesi è stata peraltro poi accolta in sede di legittimità, laddove la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 17757/16, ha affermato che, in caso di crediti Iva, in mancanza di dichiarazione annuale, l’eccedenza di imposta deve essere comunque riconosciuta, se sono rispettati (e dimostrati) dal contribuente tutti i requisiti per la detrazione.

Conclusioni – Resta il fatto che, in caso di definizione del credito come inesistente, le conseguenze in sede penale sono molto più rigide di quelle in sede tributaria, laddove, comunque, una via di uscita per il riconoscimento del credito è stata riconosciuta, almeno in sede giurisprudenziale.
Proprio sulla base di quanto indicato nella citata relazione illustrativa, il discrimen, in base al quale poter parlare di compensazione di crediti inesistenti, dovrebbe essere individuato, sia in sede penale che in sede amministrativa, nella fraudolenza o meno del comportamento del contribuente, più che nel mero accadimento della presentazione o meno della dichiarazione.
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