3 settembre 2018

Movimenti di denaro sotto la lente del Fisco

L’aumento di capitale può nascondere l’occultamento fiscale di redditi societari

Autore: Gianfranco Antico
I movimenti di denaro generano l’attenzione del Fisco, dando l’occasione ai verificatori di interpretarli a vario titolo.
L’afflusso di denaro nelle casse sociali senza alcun obbligo di restituzione, andando ad incrementare il patrimonio, assume la natura di conto di capitale. Dal punto di vista contabile il conto da utilizzare in contropartita all'entrata finanziaria potrebbe essere il versamento in conto capitale, ovvero in conto futuro aumento di capitale, ovvero a fondo perduto, o a titolo di finanziamento.

Dette operazioni possono indurre i verificatori a leggere sotto diverse chiavi di lettura tali operazioni.
I recuperi proposti dai verificatori trovano, spesso, fondamento nel disposto dell'art. 46, comma 1, del T.U. n.917/86, secondo cui i finanziamenti effettuati dai soci alle società commerciali in cui partecipano vanno considerati a titolo di mutuo ex art. 1813 e ss. del codice civile – presunzione legale relativa – e se non risulta che il finanziamento sia stato fatto ad altro titolo come appunto prevede la norma in questione, ne scaturisce la fruttuosità dei finanziamenti operati.

Una volta verificato in bilancio l'esistenza del debito nei confronti dei soci, per somme da questi precedentemente versate alla società e che si considerano date a mutuo se, dai bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi delle società, non risulta che il versamento è stato effettuato ad altro titolo, a norma del comma 2, dell'art. 45, del T.U.n.917/86, vige la presunzione, salvo prova contraria, della percezione degli interessi alle scadenze e nella misura pattuita per iscritto.

Con la sentenza n.7293 del 22 marzo 2017, la Corte di Cassazione ha affermato che l’art.46 del T.U.n.917/86 “presume la natura di mutuo fruttifero delle somme versate alle società commerciali dai soci o partecipanti, salvo che dai bilanci e dai rendiconti non risulti che il versamento sia stato effettuato ad altro titolo”. Principio, peraltro, non nuovo, atteso che la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n.17839 del 9 settembre 2016, aveva già affrontato la questione, imputando, fra l’altro la prova di non onerosità della somma versata in capo al finanziatore, limitando, fra l’altro, – ed è questo il principio comune che si ritrae dalla lettura delle diverse sentenze della Cassazione – il superamento della prova soltanto ai modi e alle forme " tassativamente stabilite dalla legge, in particolare dimostrando che i bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi della società contemplavano un versamento fatto a titolo diverso dal mutuo”. In senso conforme si era già espressa la stessa Suprema Corte nella sentenza n. 2735 del 4 febbraio 2011.

Inoltre, ai sensi dell’art.26, comma 5, del D.P.R.n.600/73, il soggetto erogante (società) è tenuto ad operare la ritenuta d’acconto, in ordine agli interessi maturati sul finanziamento dei soci, sia nell’ipotesi in cui gli interessi siano stati effettivamente corrisposti, sia nelle ipotesi in cui si presumono ex lege.
L’altra faccia della medaglia è la tassazione degli interessi in capo ai finanziatori: se il percettore è un soggetto Irpef, non imprenditore, gli interessi attivi costituiscono redditi di capitale, ex art.44, comma 1, lett. a), del T.U.n.917/86, se soggetto imprenditoriale, gli interessi attivi concorrono nel reddito d’impresa.

Ai fini dell’imposta di registro, i contratti di finanziamento dei soci, in presenza di una scrittura privata, sono soggetti all’imposta in misura proporzionale del 3%, ex art. 9 della Tariffa, Parte I, D.P.R.n.131/86. Se il contratto non viene registrato, resta ferma la possibilità per l’ufficio di procedere al recupero dell’imposta qualora venga enunciato in altro atto.
Inoltre, il finanziamento soci può accendere una spia per il sintetico: se il socio finanzia l’impresa vuol dire che ha i soldi per farlo. Ciò significa che deve avere dichiarato dei redditi congrui, che gli consentono di giustificare il finanziamento. Una volta constatato che i redditi personali non giustificano il finanziamento è probabile che occorra fare il conto con l’accertamento sintetico, di cui all’art.38, commi 4 seguenti, del D.P.R.n.600/73, sia nella vecchia che nella nuova formulazione: se il contribuente, in un anno x, ha effettuato versamenti a favore della società per 50 mila euro, e ha dichiarato nell’anno del finanziamento e negli anni precedenti redditi annui di poco superiore a 10.000 euro, qualcosa non torna, e il contribuente probabilmente sarà chiamato dall’ufficio a giustificare tali incongruenze. Se invece ha dichiarato nell’anno del finanziamento ovvero negli anni precedenti redditi annui, per esempio, superiore a 45.000 euro, i conti potrebbero tornare.
Resta ferma la possibilità per l’ufficio di aprire un altro fronte: sostenere che il finanziamento dei soci costituisca il frutto di ricavi non contabilizzati. In pratica, si fa entrare il nero pulito.
Particolarmente significativa, sotto questo aspetto, è la sentenza n.24531 del 2007 della Corte di Cassazione, secondo cui “ il considerevole aumento di capitale della società costituita a base familiare da soci che risultavano fiscalmente nullatenenti, rendeva plausibile l’ipotesi erariale che l’aumento di capitale si spiegasse con l’occultamento fiscale di redditi societari, poi trasformati in aumento di capitale e che spettava al contribuente dimostrare la diversa fonte di provenienza del denaro, per superare la presunzione di utilizzo di redditi in evasione d’imposta” (nel caso in questione, durante una verifica fiscale nei confronti di una S.r.l. a base familiare, emergeva che i soci – con redditi assolutamente esigui - avevano effettuato anticipazioni infruttifere alla società per importi particolarmente rilevanti).

Ancora in questi giorni gli Ermellini, con l’ordinanza n.16601 del 22 giugno 2018, hanno cassato la sentenza di secondo grado che aveva escluso che i finanziamenti dei soci, sprovvisti di redditi idonei a giustificare tali versamenti, peraltro effettuati in contanti e, quindi, con mezzi di pagamento non tracciabili, costituissero ricavi non contabilizzati, così violando la presunzione di cui all’art.39, del D.P.R.n.600/73 e le regole di riparto probatorio, ponendo a carico dell'amministrazione finanziaria l'inesistente onere di “chiedere alla contribuente conto e ragione della provenienza causale finanziaria di quei finanziamenti”, la cui omissione rendeva “non giustificato l'accertamento”. Per i massimi giudici, invero, “i fatti rilevati dall'Ufficio e posti a fondamento dell'accertamento, ovvero l'aumento di capitale della società da soci privi di capacità reddituale che consentisse loro di effettuare quei versamenti, peraltro in contanti, e quindi mezzi di pagamento non tracciabili, «ha generato nell'Ufficio la presunzione che, in effetti, l'aumento di capitale nascondesse l'occultamento fiscale di redditi societari poi tradotti in aumento di capitale. Quanto sopra costituisce presunzione, sia pure semplice, che imponeva ai contribuenti di dare conto, in qualche modo, della provenienza del denaro oggetto dell'aumento di capitale» (Cass. n. 24531 del 2007) e, pertanto, non incombeva di certo sull'amministrazione finanziaria «in sede di verifica» l'onere di «chiedere alla contribuente conto e ragione della provenienza causale finanziaria di quei finanziamenti», né tanto meno da tale omissione la CFR poteva far discendere l'annullamento della ripresa a tassazione di quei finanziamenti”.
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