Finora, per il cliente online, ordinare, provare e restituire scarpe e abbigliamento era una sorta di divertente gioco della moda a costo zero. E in tanti, troppi, ne approfittavano ordinando più di quanto avrebbero mai acquisto realmente, magari per indossarlo una sera e poi liberarsene, oppure ordinando tre taglie diverse dello stesso capo per scegliere con calma quale fosse il migliore. Un meccanismo perverso del business dell’abbigliamento che, al contrario, fra logistica e magazzini incide sui conti dei marketplace per circa 30 euro a capo, cifra a volte molto più alta del valore stesso di ciò che è stato restituito.
Un fenomeno dilagante che ha ormai assunto dimensioni insostenibili, raggiungendo in Paesi come la Svizzera il 45% dei resi, seguita da Germania (44%), Francia (24%) e Stati Uniti. Per capirne le proporzioni e soprattutto l’impatto, è forse sufficiente un dato: nel solo 2022, gli americani hanno rispedito al mittente capi per 816 miliardi di dollari, il 16% del totale delle vendite. In Italia il fenomeno è limitato intorno al 15% dei casi, ma è meglio non vantarsene perché non si tratta affatto di un rigurgito di onestà, quanto piuttosto di un ritardo del nostro Paese nel processo di digitalizzazione.
Così, come recita una locuzione latina sempre valida che recita ‘colpirne uno per educarne cento’, per qualcuno che fa il furbo, a rimetterci sono tutti gli altri, anche coloro che in modo innocente comprano online solo di rado e quando capita si accorgono di sbagliare regolarmente taglia.
Ma visto che distinguere chi gioca alla sfilata di moda in casa e quanti sono in buona è impossibile, il numero di portali e-commerce che eliminano dalle opzioni per i clienti quella di rendere gli ordini a costo zero continua a crescere ogni giorno di più. Molti, oltre a pretendere dai clienti di accollarsi le spese di spedizione, aggiungono perfino una piccola cifra, del tutto simbolica ma significativa perché passi il messaggio che il tempo del gratuito si è chiuso per sempre.
Secondo un’inchiesta del “New York Post”, nel Regno Unito ormai l’81% dei rivenditori ha cancellato da tempo la voce “free returns” accollando un costo aggiuntivo che secondo la categoria dovrebbe essere vissuta come una necessaria “campagna di educazione all’acquisto”.
“Zara”, la celebre catena di abbigliamento spagnola diffusa in tutto il mondo concede 30 giorni di tempo per restituire gli acquisti online, procedura gratuita se riconsegnati presso un negozio fisico altrimenti con un aggravio di 4,95 euro in caso di ritiro a domicilio. È gratuito il reso solo per i possessori di tessera del colosso svedese “H&M”, altrimenti “tassato” di 2,99 euro per tutti gli altri. Mentre per “Yoox” il reso è totalmente gratuito entro 100 giorni, ma solo se riguarda colore e taglia. Per finire con “Amazon”, che consente la restituzione dell’articolo fino a 30 giorni dalla consegna e la restituzione della somma pagata ma non di quelle di spedizione. Ma nel caso il diritto di recesso sia presentato entro 14 giorni dalla consegna, ad essere restituite saranno anche le spese di spedizione.
Il reso, il cambio o la restituzione della merce seguono regole diverse per i negozi fisici, dove l’acquisto ha la forza di un contratto, sufficiente al negoziante per poterlo negare se si tratta di un ripensamento, tanto quanto è invece obbligato nel caso l’oggetto sia difettoso e necessiti di riparazione o sostituzione. Va da sé che per una forma di rispetto e per evitare polemiche con la clientela, la maggior parte dei negozi adotti politiche più morbide che consentono il reso o la sostituzione entro termini precisi, a patto di conservare lo scontrino originale.
Sbarcati sul web, le regole cambiano: la legge garantisce 14 giorni di possibilità di recesso, ma il costo per la restituzione viene defalcato dal denaro reso al cliente. Un tempo che sale a due anni di garanzia per richiedere la sostituzione o la riparazione per un prodotto difettoso, mentre la restituzione della somma per intero scatta solo se riparare o sostituire non sia possibile.
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