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Apparenze

Autore: Ester Annetta
In ogni classe ce n’è uno.

È quello che arriva sempre dieci minuti dopo il suono della campanella d’ingresso, entra bofonchiando un ‘buongiorno’ con tono appena percettibile, senza nemmeno scusarsi per il ritardo e guardare l’insegnante, puntando dritto al suo banco.

Si siede in maniera scomposta dopo aver rumorosamente spostato la sedia e lanciato – letteralmente - lo zaino a terra, assumendo immediatamente una posa di sfida, di quelle che sembrano dire “non dite niente e state alla larga”.

Quasi sempre indossa un berretto con la visiera calata bassa sugli occhi oppure il cappuccio della felpa tirato fin sulla fronte. Ed a nulla vale l’invito degli insegnanti a levarseli, che tanto c’è sempre la scusa di un mal d’orecchi o di testa a legittimare quella protezione.

Il suo atteggiamento è sempre deliberatamente spavaldo e provocatorio; risponde scocciato ad ogni richiesta, persino col ‘presente’ dovuto di rimando all’appello, e scatta per un nonnulla, anche al solo invito a sedersi composto, assumendo un’aria minacciosa in cui difesa ed attacco diventano un tutt’uno.

Non sorride mai alle battute degli altri ma sollecita la reazione di tutti per ognuna delle sue; sembra porsi sempre in attesa del plauso o d’un cenno d’ammirazione per ogni sua bravata, sicuro della sua posizione di leader, insieme ammirato e temuto.

Non può dirsi propriamente maleducato, ma la sua scontrosità e la sua arroganza inevitabilmente finiscono per assegnare tale etichetta ad ogni sua esternazione, quasi che trovi puerile o indecorosa una risposta semplice e garbata.

Le ragazze sono tutte innamorate di lui, com’è sempre di fronte al binomio “bello e dannato” e fanno a gara per strappargli una parola o anche solo uno sguardo di cui possano poi, anche solo per un giorno, vantare l’esclusiva.

È la tipologia di alunno più difficile, quella cui gli insegnanti finiscono per dare sempre addosso, classificandolo come svogliato, indisponente, fastidioso, ribelle. Perlopiù “irrecuperabile”.

Le note disciplinari sono, nei suoi confronti, lo strumento (inutilmente) punitivo più ricorrente, insieme alle interrogazioni adottate come metro – quasi - per avere la conferma che, a voler scommettere sul suo impegno, l’esito sarà certamente l’ennesimo impreparato.

Apparenza.

È su questa che ci si ferma il più delle volte nel valutare un adolescente egoista, prepotente ed arrogante.

Luciano è tutto questo. Luciano appare così.

Nel vederlo entrare in classe il primo giorno di scuola, con la sua camminata trascinata, le spalle larghe e lo sguardo fiero, confesso d’aver pensato anch’io che si trattasse di una brutta gatta da pelare e forse anche di un probabile candidato a ripetere l’anno.

In realtà Luciano è già un ripetente. Lo scorso anno ha gettato la spugna davanti alla DAD, abbandonando le lezioni da remoto pochi mesi dopo l’inizio dell’anno scolastico.

Quest’anno si è riscritto alla stessa classe, ma ha cominciato a collezionare assenze e ritardi l’uno dopo l’altro, replicando con ogni probabilità il precedente andazzo.

È un ragazzone alto, bello ma spregiudicato abbastanza da aver già maldisposto buona parte degli insegnanti.

Ha pure messo a segno qualche nota disciplinare, accettandole perlopiù senza replica, onesto abbastanza – in fondo – da riconoscere d’averle meritate, in particolare quella affibbiatagli perché aveva minacciato un compagno, al culmine di una discussione, col consueto “t’aspetto fuori”.

Ma l’altra mattina è accaduto qualcosa di diverso. Di fronte all’ennesima intemperanza – il rifiuto di levarsi il cappuccio della felpa – e alla minaccia di una nuova nota, si è alzato dal suo banco e, sibilando qualcosa tra i denti, è uscito fuori dall’aula senza neanche chiedere il permesso.

L’ho inseguito, con l’intenzione di fargli una lavata di testa. Se ne stava davanti alla porta del bagno, girando in tondo come un leone in gabbia, col viso contratto ed i pugni serrati. Ho pensato allora che non fosse il caso di aggredirlo, ma piuttosto di accostarmi a lui con gentilezza, domandargli come stava, rassicurarlo che se si fosse calmato e fosse rientrato in classe non ci sarebbero state conseguenze.

Gli ho parlato a lungo mentre ancora si agitava continuando a recriminare sulla nota che temeva d’aver preso.

“Luciano, sta calmo, non è successo nulla. Devi solo imparare a controllare le tue reazioni e, soprattutto, devi cambiare atteggiamento: se continui a mostrarti arrogante ed indisponente non fai che indispettire ancora di più gli insegnanti. Non ce l’hanno con te, ma, se provochi, è ovvio che ricorrono all’unico strumento con cui possono spaventarti!”

È stato allora che, come se avesse completato la carica della molla necessaria a sprigionare tutta la sua rabbia ed il suo dolore mi ha urlato: “Ho gli assistenti sociali addosso; se sgarro, mi portano via! Lo capisce?”.

La maschera era caduta, l’apparenza squarciata e Luciano appariva per la prima volta per quel che realmente era, in tutta la sua disarmante fragilità.

L’ho abbracciato stretto e gli accarezzavo la testa mentre singhiozzava, abbandonandosi a lacrime che forse in segreto tante volte doveva aver versato ed altrettante aveva invece dovuto ricacciare per poter aderire a quella falsa immagine di sé – sicura e sprezzante - in cui si era avvolto come in una corazza.

Tutta la sua rabbia si stava sciogliendo; precipitava giù dai suoi occhi in forma liquida, come se non aspettasse altro, come se quel momento di debolezza gli fosse necessario per urlare al mondo intero: questo sono davvero io!

Non è stato necessario che scendesse nei dettagli. È bastato un accenno ad una separazione molto combattuta, al rancore reciproco ed ancora attuale tra i suoi genitori, ai tanti fratelli di madri e padri diversi con cui si contende briciole d’un affetto da sempre mancante, a giudici, tribunali ed assistenti sociali tra cui ha trascorso la sua infanzia, per ricomporre le tessere d’un mosaico complicato di cui la sua rabbia e la sua indisponenza sono le tinte più cupe.

“Non vergognarti di chiedere aiuto, Luciano. Aver bisogno di qualcuno con cui confidarsi e di cui fidarsi non significa essere deboli.”

L’ho detto a lui in quel momento, ma avrei voluto dirlo a ciascuno dei suoi compagni, ad ogni alunno di quella scuola, ai miei figli, ai miei nipoti.

Avrei voluto dire: non abbiate paura di raccontare il vostro dolore e non nascondetevi sin d’ora dietro una maschera che altre volte, più tardi nella vita, sarete costretti ad indossare.
Non nutritevi di rabbia e non sfogatela sulla debolezza altrui.
Non guardate noi adulti come nemici, non respingeteci, non nascondetevi.
E, soprattutto, non buttate via la vostra vita, arrendendovi di fronte alle sfide, ai dolori ed alle incertezze che a volte vi sbatte addosso troppo presto.
Seguite i giusti modelli e non gli idoli falsi del momento.
Non emulate che vi sembra più forte e accreditato, ma siate voi stessi, con tutte le vostre fragilità e le vostre ricchezze.

Allo stesso modo avrei voluto dire ad ogni adulto – insegnante, genitore o chiunque altro sia impegnato nel difficile compito educativo – di avere la lucidità e la sensibilità di guardare oltre l’ingannevole apparenza e le sue provocazioni, sacrificando, quando necessario, quella veste di tutori di un ordine astratto e spesso poco aderente alla realtà concreta in nome di un dovere che dimentica troppe volte che, oltre alla forma, al rigore, alla disciplina e al proprio egoistico desiderio di plauso, è anche ai bisogni dell’anima di chi intendiamo educare e proteggere che dovremmo essere in grado di guardare.

L’apparenza molto spesso è da demolire, non da salvare.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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