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La memoria di chi c’era

(la storia di Sami Modiano)

Autore: Ester Annetta
Mi è sembrato un segnale da non trascurare che questo sabato di gennaio coincidesse proprio con la “Giornata della Memoria”; altrettanto, quasi fosse la tessera necessaria a completare un mosaico, lo è stato l’opportunità di poter partecipare alla diretta streaming dell’incontro con Sami Modiano, organizzato lo scorso 23 gennaio da “Sapienza - Università di Roma” e Fondazione Museo della Shoah e dedicato agli studenti di tutte le scuole (qui è possibile rivederlo: https://www.youtube.com/watch?v=6ZcbYhpmHd0).

Un evento che, come ha sottolineato il Rettore dell’Ateneo romano, Antonella Polimeni, non voleva essere un momento commemorativo, ma un autentico “esercizio di memoria”, ossia la condivisione dell’esperienza di chi è stato parte, suo malgrado, di accadimenti storici importanti, con l’intento di “dare un contributo al nostro presente per consolidare un futuro equo, non dilaniato dagli orrori del passato”.

Sami Modiano è uno degli ultimi (ormai) rimasti tra i superstiti dell'Olocausto. Un sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.
“Sopravvissuto” e non semplice “testimone” - come ha precisato Mario Venezia (Presidente della Fondazione Museo della Shoah) nel presentarlo - giacché non è stato solo uno spettatore di quegli accadimenti, ma vi è stato dentro, li ha vissuti, ed è perciò indicibile la sua sofferenza ogni volta che ricorda.

Ed è perciò a questo ricordo che, in questa giornata, va reso omaggio, proponendone la narrazione.

L’incedere di Sami è lento e incerto mentre avanza verso il palco; denuncia tutto il peso dei suoi 93 anni e del suo vissuto. Anche la voce è lenta e docile, ma ha in tal modo il pregio di scandire con precisione i dettagli di quanto racconta, agganciandosi alle domande che, a turno, gli rivolgono alcuni studenti di varie scuole.

Il suo ricordo si srotola da quando aveva otto anni e viveva a Rodi, l’isola delle rose, dov’era nato e dove comunità di ebrei, cristiani e musulmani convivevano pacificamente. Lì aveva ricevuto il suo primo e più naturale insegnamento: la fratellanza, alla cui luce gli avvenimenti successivi gli sarebbero perciò apparsi ancora più incomprensibili.

Era stato un tempo felice, quello; si riteneva un bambino fortunato, con una bella famiglia - un padre, una madre e una sorella maggiore - che lo adorava.

Ma nel 1938 le cose erano improvvisamente cambiate. Nella Rodi divenuta “italiana” dopo la guerra con la Turchia iniziata nel 1911 (e tale rimasta fino al ’43), Sami frequentava la scuola pubblica italiana; una mattina – era in terza elementare - era stato chiamato alla cattedra dal maestro che, con un’espressione dispiaciuta e quasi sottovoce, affinché i suoi compagni non sentissero, gli aveva annunciato d’esser stato espulso.

Tra le lacrime aveva domandato cosa avesse fatto per meritare una così grave punizione, ma il maestro aveva lasciato che a dargli la risposta fosse suo padre, più tardi a casa.

E così era stato. Ma Sami aveva continuato a non capire cosa significasse “essere diverso perché ebreo”. Ancora oggi, confessa, non lo comprende.

Quello era stato il suo primo, grande dolore.

Le leggi razziali a Rodi erano state applicate alla lettera, ma non era ancora tutto. L’anno dopo era stata dichiarata la seconda guerra mondiale e Sami l’aveva conosciuta da vicino, con tutte le sue privazioni.

Nel ’41 aveva perso sua madre, morta a causa di problemi cardiaci. Suo padre era rimasto senza lavoro perché ebreo e faceva quel che poteva per procurare un po’ di cibo. Sua sorella era diventata il punto di riferimento della casa: ricorda che faceva tre porzioni di ciò che il padre riusciva a racimolare, ma mangiava molto lentamente la propria fingendo di non aver fame per cederla a Sami, accorgendosi che non era sazio. E lui ricorda con tenerezza quel gesto e l’accresciuto affetto verso quella figura che si sforzava di supplire a sua madre.

La situazione era destinata tuttavia a precipitare dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43, giacché i tedeschi, una settimana dopo, avevano occupato Rodi.

L’iniziale preoccupazione della comunità ebraica si era andata però lentamente distendendo, dal momento che i tedeschi sembravano più concentrati a continuare i loro attacchi contro la vicina isola di Cipro piuttosto che occuparsi di essa. Finché, il 18 luglio, aveva preso corpo la decisione della deportazione.

Qui il ricordo di Sami diventa più drammatico.

Era il giorno del suo quattordicesimo compleanno. I tedeschi erano entrati nel quartiere ebraico e avevano ordinato a tutti i capofamiglia di presentarsi, muniti di documento, presso il loro comando per “un semplice controllo”.

Tutti, compreso suo padre, avevano eseguito; e non erano più tornati a casa.

L’indomani i tedeschi erano tornati e avevano annunciato che tutti avrebbero dovuto preparare un fagotto con cibo e vestiti, prendere i beni di valore e chiudere casa perché bisognava partire subito: altrove c’era bisogno di manodopera.

L’intera comunità – circa duemila persone – era stata quindi radunata in una ex caserma dell’aeronautica italiana. C’erano anche i capofamiglia convocati il giorno prima.

Tutti erano stati perquisiti e i beni di valore che avevano con se’ erano stati sottratti.

“Eravamo già in gabbia” ricorda Sami.

In quel posto erano rimasti fino alla mattina del 23 luglio, quando l’allarme delle sirene aveva suonato: si trattava di un diversivo, necessario a far si che cattolici, musulmani e ortodossi scendessero nei rifugi e non vedessero la deportazione che stava per iniziare.

Erano state utilizzate tre carrette di metallo - di quelle adibite al trasporto di animali tra le isole del Dodecanneso - per trasferire tutti al porto. Faceva caldissimo e nelle carrette c’erano ancora gli escrementi degli animali che vi avevano stazionato. Caricati nella stiva di un vecchio mercantile, in condizioni disumane, aveva avuto quindi inizio il viaggio dei deportati verso il porto del Pireo.

Avevano navigato per una settimana. Nella stiva c’erano solo cinque secchi d’acqua e un bidone vuoto: i primi dovevano bastare a dissetare tutti, in maniera razionata; l’altro, doveva servire ad espletare i propri bisogni.

C’è una scena di quei giorni che Sami non dimentica: suo padre non beveva da tre giorni; la “guardia” che razionava l’acqua gliene aveva porto mezzo bicchiere. Ma accanto a lui c’era un’anziana signora ormai in fin di vita; suo padre aveva perciò passato il bicchiere all’uomo che le stava vicino affinché le bagnasse le labbra, dicendogli: “ne ha più bisogno di me.”

Quella solidarietà, quel sentimento di fratellanza che portava quei disperati prigionieri persino a fare scudo a chi aveva necessità di servirsi del bidone, nel rispetto del suo senso del pudore, è il ricordo migliore che Sami ha di tutto quell’orrore.

Quando l’indomani l’anziana signora era stata scoperta morta, alcuni avevano bussato alla porta della stiva per chiedere ai tedeschi di guardia cosa fare col cadavere. La risposta era stata: gettatelo in mare.

Le lacrime hanno ora il sopravvento, mentre Sami dice: “Ringrazio Dio di essersi preso mia madre prima, perché altrimenti, con i suoi problemi di cuore, sarebbe stata di sicuro tra quelli da dover gettare a mare. Invece Lui ha voluto che avesse una tomba, su cui sarei potuto andare più tardi a portare un fiore o una pietra”.

Il racconto si arricchisce di dettagli. Sami è un fiume in piena: risponde ad ogni domanda in maniera precisa e completa. Non vorrebbe tralasciare nulla, comprese le sue emozioni che, ora, più frequentemente, continua a sciogliere nelle lacrime. Il suo è un dolore che il tempo lenisce ma non cancella, la memoria viva di un passato che si ripropone con tutto il suo orrore ogni volta che viene rievocato.

Continua così a narrare l’ultimo tratto del suo viaggio, quello compiuto sul “treno della morte” – come lo chiama lui – da Atene a Birkenau.

Era il 3 agosto quando quelle circa duemila persone, che avevano ormai chiaro d’esser prigionieri, erano state caricate nei vagoni di un treno merci: 90 per carrozza; nemmeno lo spazio per sedersi; i soliti cinque secchi d’acqua e un bidone. E il caldo.

I vagoni diventavano roventi nelle lunghe soste sotto il sole che, durante il tragitto, il treno – già lentissimo - compiva per dare precedenza ai convogli militari. Si trattava in realtà di una alternativa pensata ad arte, un modo per lasciar morire quante più persone possibile prima dell’arrivo a destinazione. E anche in quel caso i cadaveri venivano gettati fuori dai vagoni, lungo i binari, dove capitava.

Stipati in quelle gabbie semoventi, i prigionieri tentavano di vedere dai finestrini i nomi delle stazioni che attraversavano.

Il 16 agosto, dopo tredici giorni di cammino, il treno si era infine fermato. Birkenau.

Quello da Rodi è stato considerato dagli storici il viaggio più lungo che i tedeschi dovettero organizzare per portare prigionieri alle camere a gas.

Loro però non sapevano di essere arrivati a destinazione; tutt’intorno si vedevano filo spinato e baracche in lontananza. Il silenzio era totale.

Poi, quando il mattino s’era schiarito, era giunta una squadra di un centinaio di tedeschi. Avevano spalancato le porte dei vagoni e alcuni che parlavano spagnolo avevano ordinato agli occupanti di scendere e lasciare tutte le loro cose a bordo. Armati di bastone, li avevano percossi, con una rabbia ed una cattiveria disumane.

Dov’era silenzio, erano ora confusione, urla e pianto.

I padri avevano cercato di tenere vicino il resto della famiglia. La vicinanza aveva funzionato fino a quel momento, aveva tenuto tutti uniti come un gregge.

Ma i tedeschi avevano ordinato di separare gli uomini dalle donne e solo allora i padri e i mariti che avevano continuato a mantenere la calma, avevano reagito.

Lo aveva fatto anche il padre di Sami, giacché non aveva affatto intenzione di separarsi da quella figlia diciottenne cresciuta con tanto amore.
In tre gli erano subito stati addosso e lo avevano massacrato a manganellate, sotto gli occhi di Sami, che in quelli del padre aveva visto solo la disperazione e l’impotenza per non poter proteggere sua figlia. Un’espressione di fallimento, dipinta ormai sul volto di tutti.

Era lì, sulla “rampa della morte”, appena scesi dal treno, che avveniva di solito la prima selezione. C’erano ufficiali medici e specialisti, che soltanto guardando i prigionieri sfilare davanti a loro, indicavano quale direzione dovessero prendere, destra o sinistra: l’una significava morte; l’altra, “vita provvisoria”.

Ma cosa volesse dire, gli ebrei di Rodi lo avevano scoperto solo quella sera, quando i superstiti si erano ritrovati: l’80% era stato immediatamente mandato alle camere a gas; il restante 20% a “vita provvisoria”, poiché serviva a mandare avanti l’ingranaggio di quella fabbrica di morte: camera crematoria, camera a gas...

La grande famiglia ebraica di Rodi non c’era più; le anime dei già morti si stavano disperdendo nel fumo delle ciminiere dei forni.

I superstiti erano poi stati portati nella “sauna” dove erano stati rapati a zero, spogliati e disinfettati. Ai rimasti erano stati consegnati un pigiama ed un cappello a righe e un paio di zoccoli ed erano stati marchiati con un numero sul braccio sinistro.

Suo padre, che non gli aveva mai mollato la mano, era stato contrassegnato con il numero B7455; Sami, con il numero B7456. Un solo numero di differenza, “ma non abbastanza per dire di averlo avuto, di averlo conosciuto quanto sarebbe servito”, sospira Sami. Se ne sarebbe andato troppo presto, circa quaranta giorni dopo l’arrivo. Lucia, sua sorella, dopo soli trenta.

Una studentessa chiede a Sami di raccontare com’è nata, nel campo di Birkenau, la sua amicizia con Pietro Terracina, un altro sopravvissuto del campo, scomparso pochi anni fa.

Sami non va dritto alla risposta, racconta prima altri episodi della sua permanenza in quel posto. E spiega perché: quest’incontro è probabilmente uno degli ultimi che potrà fare, visto l’avanzare degli anni. Ci tiene perciò a trasmettere quante più cose possibili di questa sua memoria, perché se è vero che raccontare non è lo stesso che aver visto e vissuto ciò che viene descritto, serve tuttavia a passare un testimone e a spargere un seme di umanità, che impedisca il ripetersi di drammatici errori.

Narra così di quella volta che era stato mandato con altri prigionieri a caricare legna nel bosco. C’era già la neve e non si era accorto di una buca nel terreno, colma di acqua ghiacciata, dentro cui era quindi caduto. Era troppo debole per tirarsi fuori e così un altro prigioniero gli aveva teso la mano per aiutarlo ad uscire. Un soldato tedesco si era avvicinato sfoderando la pistola, pronto a sparare il colpo di grazia alla testa di entrambi; ma si era trattenuto all’ultimo momento ricordandosi che con due uomini in meno sarebbe stato difficile riportare indietro il carro carico di legna. E così Sami aveva continuato a lavorare tutto il giorno, col pigiama bagnato e scalzo, perché i suoi zoccoli erano rimasti in fondo alla buca.

Quella non era stata la sola volta in cui aveva evitato la morte; era capitato ancora il giorno dopo, quando aveva deciso di nascondersi per non andare a lavorare. Se lo avessero trovato, sarebbe stato ucciso al momento. Si era salvato soltanto perché il prigioniero addetto alle latrine – dove era andato a nascondersi – lo aveva rinchiuso nella botola dove venivano scaricati gli escrementi raccolti.

L’ultima volta era stato quando, ormai non più abile per i lavori forzati, era stato selezionato per essere mandato nella camera a gas. Era fermo lì davanti con un centinaio di altri prigionieri, in attesa che fosse “smaltito” un precedente carico di deportati ungheresi. Intanto era arrivato un treno di patate da scaricare e serviva mano d’opera. Perciò tutti loro erano stati mandati ad svolgere quell’incombenza. A lavoro finito, i soldati che erano tornati a riprenderli, non sapendo che si trattasse di prigionieri del Lager A, destinati alla camera a gas, li avevano riportati nel Lager B, sottraendoli a morte certa.

Era lì che aveva conosciuto Pietro Terracina. Aveva raccontato a Sami la sua storia e lui aveva fatto altrettanto: era la stessa storia, di due ragazzi che avevano una famiglia bella e affettuosa e che avevano perso tutto.

Pietro era di due anni più grande ed era perciò diventato il punto di riferimento di Sami.

Quell’amicizia, nata in un luogo di morte, è stata la cosa più importante per entrambi e non si è mai interrotta, fino alla morte di Pietro.
Anni dopo la fine di quell’incubo, era stato lui a sollecitare Sami più volte a raccontare la sua storia; lo chiamava ogni volta che andava a portare la sua testimonianza tra la gente, nelle scuole, nelle commemorazioni.

Ma Sami continuava a rifiutare.

Una volta, però – era il 2005 - aveva deciso di accontentarlo e perciò lo aveva seguito, insieme all’allora sindaco di Roma Veltroni, nel “Viaggio della Memoria” che portava alcuni studenti romani nei luoghi dello sterminio.

Quando era giunto a Birkenau, aveva ceduto ad una crisi di pianto irrefrenabile. Aveva rivisto ogni cosa, ogni volto, suo padre, sua sorella; i giorni trascorsi con Pietro; i morti ammazzati: non solo gente comune, ma anche omosessuali, disabili, bambini. Dopo sessant’anni, era ancora tutto lì, vivido, indimenticato: ogni cosa orrenda che i suoi occhi avevano visto e che la ragione comune fatica a comprendere.

Si era voltato verso gli studenti che accompagnava e li aveva visti piangere tutti.

Il pianto scende ancora adesso, copioso, tra le rughe del viso di Sami, che ricorda che fu proprio lì, in quel momento, davanti a quel cimitero di innocenti e a quegli spettatori vivi che aveva giurato che da quel giorno in avanti non si sarebbe più fermato, che avrebbe portato avanti la sua testimonianza tra la gente, tra i ragazzi, finché le sue gambe e Dio gliene avessero dato la forza.

E così è.

A 93 anni Sami guida ancora tanti giovani lungo il cammino che ha percorso: attraverso la sua storia e il suo dolore; attraverso quegli esempi di umanità e fratellanza che sono rimasti intatti anche di fronte all’orrore; attraverso la memoria. Affinché tutto questo sia l’esempio che abitui le generazioni presenti e future al rispetto d’ogni essere umano, senza alcuna distinzione di colore, di bandiera, di latitudine o soltanto di idee, educandole alla pace.

Una lezione di cui, di questi tempi, c’è davvero tanto bisogno.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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