“Buongiorno prof, lei c’è alla prima ora?”
Sono le 7.36 di un mattino di gennaio, ritagliato nella gelida cornice dei giorni della Merla.
Il messaggio di Alessandro mi arriva inaspettato mentre sono ferma in macchina ad un semaforo. Sorrido, sorpresa e contenta; ho giusto il tempo di scrivere velocemente un “si” prima che scatti il verde.
“Va bene, allora passo”, è la replica immediata.
Non lo vedo da settembre, da poco prima che la frattura mi costringesse al soggiorno forzato a casa. Anche allora mi aveva scritto, dandomi il suo “in bocca al lupo” per l’intervento che avrei dovuto subire, e aveva poi aggiunto: “Spero che ti rimetti al più presto, perché entrare in quella classe e non vederti non è la stessa cosa. Ti voglio bene”.
Quella volta, però, avevo pianto.
Alessandro è così, sempre in bilico tra il rispetto del ruolo, che gli impone il ricorso al “lei”, e quel bisogno di vicinanza che gli fa abbattere il “pronome della distanza”, lasciandolo rifugiare nel più intimo e confortante “tu” quando, velatamente, reclama un punto di riferimento, un’attenzione, un abbraccio.
Penso che per avermi cercato così di buonora – lui che ha sempre collezionato innumerevoli ritardi per la fatica di svegliarsi – deve avere un buon motivo.
Già da fine novembre so che ha smesso di venire a scuola.
Ci ha provato a non arrendersi dopo la bocciatura dell’anno precedente, ma soltanto in risposta alle pressioni di sua madre che avrebbe voluto per lui quel “pezzo di carta” in grado di aprirgli qualche porta piuttosto che riceverne di chiuse in faccia.
Ma nella nuova classe, con compagni tanto più piccoli di lui e senza le attenzioni, il sostegno e talvolta persino le “coperture” con cui ho provato a sorreggerlo l’anno prima, affinché si sforzasse di non mollare, sente troppo gravoso il peso della sua inadeguatezza e del suo non dover essere lì.
Come ogni adolescente, pensa che la scuola si risolva nella fatica dell’immediato, nelle sveglie che suonano, nei compiti a casa, nei voti e nelle note di condotta. Non sa vedere oltre, ai sentieri della mente e dell’impegno che si fortificano, srotolandosi poi verso future opportunità.
Ad Alessandro importa l’immediato, l’ora e subito, la contingenza attuale.
Perché essere padre a diciassette anni disorienta, ma appella anche a responsabilità improrogabili, soprattutto se i pesi, le necessità e l’impegno non possono essere condivisi con una famiglia d’origine solida e unita.
Lui questo lo sa bene. È cresciuto rimpallato tra genitori in dissidio perenne, assistenti sociali che lo spogliavano d’identità chiamandolo “il minore”, e giudici; ha conosciuto le aule di Tribunale prima ancora che quelle scolastiche; ha assistito a scontri e ripicche imparando a trattenere lacrime e rabbia che solo ora, da “grande”, ripaga con l’indifferenza e la distanza punitiva verso un padre ed una madre troppo presi dalla loro guerra da non accorgersi degli ulteriori ammanchi che la loro condotta andava a sommare a mancanze già esasperate.
“Ciao prof, che bello rivederti!”
Mi aspetta davanti al cancello; ha atteso che la campanella d’ingresso dissipasse l’assembramento degli studenti e poi mi ha mandato a chiamare.
Lo abbraccio e lui mi ricambia con una stretta lunga e vigorosa. Non ho bisogno di cercare frasi, so che basta il semplice interrogativo “come va?” a dare la stura al suo bisogno di dire, raccontare, maledire, imprecare.
Ed è quello che accade.
Mi racconta di Michela – la sua ragazza e madre di suo figlio – che ha deciso di lasciarlo.
Troppo giovane a sua volta per essere in grado di decidere per se stessa prima ancora che per il bambino, ha lasciato che i suoi genitori ingerissero prepotentemente nella gestione di una relazione che, per quanto immatura, avrebbe dovuto comunque lasciare spazio e voce a due adolescenti che volevano provarci ad essere una famiglia.
Così lui è stato tagliato fuori. Ha dovuto ricorrere ancora una volta ad un giudice per ottenere di poter vedere suo figlio tre volte a settimana. Un destino uguale al proprio, un passaggio di testimone che ripropone, drammatico e doloroso, il copione di una tragedia che a quella creatura, sangue del suo sangue, avrebbe voluto poter risparmiare.
“E allora che posso fare, prof? Come faccio a venire a scuola? Ho bisogno di lavorare, perché per questo figlio ci devo essere, in qualche modo: se lui manca a me, io non posso fargli mancare niente! Altrimenti mi fanno passare per inaffidabile e lo perdo per sempre. Ci sono passato, e lo so”.
Straziante e senza una grinza.
Lo ascolto e invece vorrei urlare. Ma contro cosa? Contro quali colpe?
Forse quelle di famiglie disagiate per cui le esigenze affettive soccombono ai bisogni materiali? Quelle di una scuola che pretese burocratiche ed obblighi ministeriali rendono cieca alle difficoltà della vita reale del singolo studente? Quelle di un Dante, di un’equazione di secondo grado, di mastrini ed inventari o d’un “Parlez-vous français” che, anteponendo la priorità del voto all’ascolto e al dialogo, si fanno complici del silenzio e dell’isolamento dei giovani? Quelle di un ragazzo-padre che preferisce rinunciare al “sapere che rende liberi” e cercare i mezzi per colmare le mancanze di suo figlio prima ancora d’esser riuscito a sanare le proprie?
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Spaccherei tutto, prof; li ammazzerei per il male che mi stanno facendo.
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E che risolveresti? Allora sì che tuo figlio non lo vedresti più.
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Lo so. Per questo mi freno. Pensa prof, mi avevano pure proposto un guadagno facile, di quelli che entri in un giro e ti danno una piazza. Ma ho detto di no, perché mio figlio deve poter dire almeno che ha un padre onesto. Perciò, per ora consegno le pizze, ma mio fratello ha parlato col datore di lavoro suo e dice che tra un po’ mi farà avere un posto di facchino. Così avrò uno stipendio fisso. Poi ad aprile divento maggiorenne e mi libero del Tribunale dei Minori, almeno per quello che riguarda me.”
Vorrei essere un mago in quel momento, e cambiare le tinte di quell’acerbo progetto di futuro disegnato a matita e senza colori.
Stringo forte Alessandro ancora una volta e, nel salutarlo gli ricordo che ci sarò sempre, ogni volta che avrà voglia di parlare, che avrà bisogno di consigli o che vorrà anche soltanto imprecare.
Sorride e ricambia il mio abbraccio.
Mi resta addosso quel profumo che ogni giorno saturava l’aula, quando ancora rispondeva “presente” all’appello. Svanirà nel corso della giornata.
Ma quello sguardo triste ed arrabbiato, no. Mi resterà nella memoria e nel cuore per sempre.
Buona vita, Ale. Ti voglio bene anch’io.