Venerdì scorso, Aleksej Navalny è morto nella prigione di massima sicurezza IK-3 di Kharp, nota come “Lupo Polare”, un luogo insidioso ed estremo posto all’interno del Circolo polare artico, a quasi 2.000 chilometri da Mosca.
È morto per “cause naturali da assassinio”. Nessuno, neppure per un istante, ha creduto alla versione del malore avuto dopo una passeggiata, come invece riferito dal servizio penitenziario federale russo.
Aleksej era detenuto perché simbolo unico dell’opposizione all’imperialismo putiniano e per l’attività – raccontata attraverso il proprio canale YouTube – che lo aveva portato a scoprire e combattere la corruzione e le irregolarità di alcune grandi società russe.
Nonostante nel 2018 la sua candidatura fosse stata esclusa dalle elezioni presidenziali - che Putin aveva vinto praticamente da candidato unico, con oltre il 75% dei voti – aveva continuato a far paura allo zar, giacché nemmeno i numerosi processi e le condanne subite – l’ultima a 19 anni, per estremismo – erano riusciti a zittirlo.
Negli ultimi due mesi – come lui stesso aveva riferito in uno dei più recenti messaggi alla moglie - era stato tenuto in isolamento nella sua prigione, in condizioni disumane, quasi senza soluzione di continuità.
Ed è stata proprio sua moglie Yulia – quella donna bella, composta e riservata, che pur avendo sempre appoggiato e assecondato la politica e la condotta del marito, è sempre rimasta un passo indietro, preferendo apparire come madre e moglie che non come politica a sua volta – a lanciare chiaramente e senza parafrasi l’accusa a Putin: è stato lui ad uccidere Aleksej.
A confermarlo parrebbe non esserci bisogno d’indagini, bastando la scansione di tutto ciò che era accaduto prima e quel che è accaduto dopo la sua morte.
Già una prima volta, infatti, nel 2020, Aleksej era scampato ad un avvelenamento proprio grazie all’intervento tempestivo di Yulia ed al solerte soccorso prestato dai medici.
Secondo il suo staff l'avvelenamento era stato causato dal Novichok, una sostanza dal nome suadente - quasi evocativo di un prodotto dolciario - che significa invece “nuovo arrivato” e lo colloca un nuovo gruppo di agenti nervini sviluppati dall'Unione Sovietica negli anni settanta e ottanta. Uno tra i più pericolosi, tra l’altro: allo stato liquido o in polvere, è inodore e non lascia traccia nell’organismo una volta esaurito il suo effetto. A contatto con le vie respiratorie o con la pelle, provoca, in un tempo brevissimo, perdita di controllo dei muscoli, difficoltà respiratorie, perdita di controllo delle funzioni corporee, convulsioni, paralisi e infine morte.
Peccato, però, che nella sua cartella clinica d’allora mancassero proprio gli esami che avrebbero potuto confermarlo.
Stavolta, invece, è bastato tutto ciò che è seguito all’annuncio della morte di Aleksej a supportare i sospetti: dapprima le diverse versioni sulle cause che l’avrebbero causata; poi le resistenze a consentire indagini mediche sulla salma ed il rifiuto di consegnarla alla madre, quasi a voler attendere il tempo necessario a far svanire tracce compromettenti; infine la curiosa coincidenza della promozione a colonnello generale del Ministero degli Affari Interni del vice capo dell'autorità carceraria, Valery Boyarinev, appena tre giorni dopo il decesso di Aleksej, come fosse una sorta di “ricompensa”.
Insomma, tutto secondo un ben preciso disegno già ampiamente collaudato dal regime russo, niente affatto nuovo a misteriose sparizioni di oppositori e dissidenti.
Solo che stavolta qualcosa non è andato proprio secondo i piani.
Non si poteva certo immaginare che, nell’arco di poco più di quarantott’ore, il testimone di Aleksej passasse di mano, e, niente meno che, proprio a sua moglie.
In un video di qualche minuto, in cui – nonostante il viso stanco e tirato, la penombra ed il sobrio abito scuro - è apparsa regale nella sua compostezza e dignità (e qui viene spontaneo il confronto, inarrivabile, con certe influencer che tentano di atteggiarsi a vittime…), Yulia Navalnaya, non solo ha accusato Putin, senza mezze misure, della morte di suo marito, ma ha anche reso chiaro quale sarà d’ora in poi il suo ruolo: non più la “First Lady dell’opposizione” (come l’avevano definita), ma il suo nuovo leader.
Ma non l’ha fatto usando proclami o invettive. Tutt’altro.
Ha invece scelto parole semplici, toccanti e dirette, una delicata e commovente formula che è stata, al tempo stesso, un giuramento d’impegno verso il popolo russo ed una promessa d’amore verso Aleksej: «Uccidendo Alexej, Putin ha ucciso metà di me, metà del mio cuore e della mia anima. Ma ho ancora la parte restante, e mi dice che non ho il diritto di arrendermi. Continuerò il lavoro di Alexej Navalny. Continuerò a lottare per il nostro paese, e vi chiedo di stare al mio fianco».
Un noto aforisma recita: “non c’è niente di più bello di una donna che in rinascita; di una donna che si rialza dopo la caduta, dopo la tempesta; che ritorna più forte e bella di prima, con qualche cicatrice in più nel cuore, sotto pelle, ma con la voglia di stravolgere il mondo, anche solo con un sorriso”.
Ecco, Yulia Navalnaya si è già rialzata, e sebbene sia ancora presto perché possa nuovamente sorridere, non ha tuttavia esitato a parlare, a rivelare quanto ha nel cuore e nella mente, a cominciare a scrivere un nuovo capitolo di storia, ad intraprendere una nuova battaglia per la libertà ed i diritti della sua gente.
Chissà se l’hanno capito, lì, ai vertici, che non c'è niente di più pericoloso di una donna che dice e fa ciò che pensa.