Accanto a quello della siccità, durante la settimana appena trascorsa l’argomento che più d’ogni altro ha interessato politica, opinione pubblica e popolo social è stato la sentenza della Corte Suprema americana sull’aborto.
Si è detto di tutto: perlopiù si è parlato di un salto indietro nel tempo che ha cancellato mezzo secolo di battaglie per i diritti delle donne, riproponendo un quadro ormai decontestualizzato rispetto allo stadio di evoluzione sociale raggiunto; si è sottolineata la contraddizione – tutta americana - di un sistema giudiziario che, se da un lato, pare voler tutelare la vita proteggendola sin dal grembo materno, dall’altro la lascia in balia della follia di chiunque possa entrare in una scuola ed uccidere decine di bambini, perché non esiste alcun limite o controllo alla possibilità di acquistare armi; si è addirittura paventato il rischio di un’inversione di tendenza anche in Italia, che mini la solidità della Legge 194/78.
Tuttavia molti commenti sono scaturiti da una scarsa conoscenza del contenuto della sentenza, che troppo semplicisticamente (e scorrettamente) si è etichettata come quella che “ha vietato l’aborto”.
Allora capiamoci, comprendiamo il senso di questa sentenza, senza con ciò voler affatto minimizzare la portata delle sue conseguenze. Esse vanno comunque considerate realisticamente, stante il concreto rischio che si verifichi ciò che definisco “l’effetto dieta”: l’imposizione di un limite innesca inevitabilmente la tentazione della trasgressione. Che, nel caso di specie, non è certo poca cosa trattandosi di una questione in cui il limite – e dunque il conflitto – è tra diritto alla vita e diritto all’autodeterminazione, passando per le maglie di quel sottile setaccio che si chiama coscienza.
Partiamo allora dal ruolo della Corte Suprema degli Stati Uniti, organo giudiziario che, volendo tentare un accostamento alla nostra magistratura, assomma in sé la funzione di organo di terzo grado di giudizio - come la nostra Cassazione – dove arrivano tutte le cause dei 50 Stati americani; nonché di giudice che decide sulla costituzionalità delle leggi federali, al pari di quanto fa la nostra Corte Costituzionale.
La caratteristica delle sentenze emesse dalla Corte Suprema è che – com’è proprio dei Paesi dove esiste il sistema giuridico del common law - costituiscono un “precedente vincolante” e, dunque, esse assumono portata di “legge” benché di derivazione giurisprudenziale; pertanto vincolano le corti inferiori, che non possono decidere in difformità dalle stesse. Ciò tuttavia non impedisce (sebbene accada di rado) che la stessa Corte, con sentenza successiva, possa decidere altrimenti mutando un precedente già adottato, con conseguenti ricadute sugli assetti legislativi dei singoli Stati americani formatisi sulla scorta del primo orientamento.
Nella specie, il precedente vincolante era costituito dalla sentenza Roe contro Wade del 1973, definita di portata storica in quanto con essa la Corte Suprema aveva riconosciuto sussistere il diritto federale - perciò applicabile in tutti gli Stati – per la donna, di interrompere volontariamente la gravidanza pur in assenza di problemi di salute propri o del feto, unicamente per sua libera scelta e fino al momento in cui il feto non è scientificamente ritenuto in grado di sopravvivere in maniera autonoma al di fuori dell’utero materno (all’incirca il sesto mese); ma anche oltre tale limite ove però sussista un pericolo di vita per la madre.
La decisione si fondava sul quattordicesimo emendamento della Costituzione, secondo cui sussiste un diritto alla privacy inteso come diritto alla libera scelta relativamente alla sfera più intima dell’individuo.
Su tali basi, la sentenza aveva dunque sdoganato l’aborto negli Stati dov’era illegale del tutto (30) o ammesso solo in alcuni casi (16).
Con la discussa sentenza di qualche giorno fa, la Corte ha rivisto il suo stesso precedente evidenziando che non esiste un diritto all’aborto garantito dalla Costituzione degli Stati Uniti, e di conseguenza esso non può considerarsi un diritto federale. Ergo, nei diversi Stati rivivono le leggi precedenti che la pronuncia del 1973 aveva superato o vengono comunque lasciati liberi di legiferare in materia come ritengono più opportuno e corretto.
La decisione è scaturita dalla discussione circa la costituzionalità di una legge dello Stato del Mississippi del 2018 che vietava l’aborto dopo la 15ª settimana di gravidanza: proprio sulla base del precedente Roe vs Wade le corti federali di grado inferiore ne avevano sospeso l’entrata in vigore, considerandola incostituzionale e provocando perciò il ricorso alla Corte Suprema.
Ecco. La sentenza non ha quindi vietato l’aborto, non essendosi affatto pronunciata sulla sua liceità, ma ha semplicemente rimesso alla legislazione dei singoli Stati ogni scelta in merito.
Ora, indipendentemente da quelle che possono essere state le (pure insinuate) influenze politiche che hanno agito sulla decisione, resta indubbia la questione delle sue ricadute indirette, soprattutto in quegli Stati in cui la normativa in materia d’aborto è molto restrittiva. Il pericolo che più si avverte è che possa affermarsi la pratica che le donne vadano ad abortire in quegli Stati dove non ci sono divieti o, peggio, che aumentino sconsideratamente gli aborti clandestini, con conseguenze spesso anche letali per le madri.
Limitandomi all’oggettività della vicenda e senza voler assumere alcuna posizione, ciò che voglio concludere è che il tema dell’aborto – innegabilmente tra i più drammatici – debba essere affrontato, per la sua delicatezza, su terreni sgomberi da fraintendimenti ed interpretazioni capziose delle vicende che, come in questo caso, ne sollecitano l’interesse.
Soprattutto, non può prescindersi dal considerare che si tratta di un argomento su cui unitarietà di vedute non potrà mai esserci, ancorato com’è a sentimenti e pensieri di varia natura, ove entrano in gioco le variabili più disparate: convinzioni personali, ideologie, religione e persino orientamenti politici.
Ma innegabilmente va constatato che, al di là della legalità o meno della pratica e dal riconoscimento garantito di una libertà di scelta, sarà sempre e solo la coscienza della singola donna – più che mai sola in questa circostanza - a condizionare la sua autodeterminazione, anche quand’essa non venga ufficialmente legittimata.