Uno schiavo dell’antica Roma che fosse riuscito a salvarsi affrontando un leone nell’arena, avrebbe avuto la libertà;
nell’”era buia” del Medioevo, un condannato alla pena di morte che fosse riuscito a sopravvivere, non avrebbe potuto più esser giustiziato;
oggi, ci sono Stati civilizzati che ancora contemplano nel proprio ordinamento giuridico la pena di morte, e che non ammettono invece ripensamenti né rigurgiti di umanità neppure di fronte ad evidenti “segnali” che l’imporrebbero.
In Alabama, c’era un uomo di 58 anni che l’altro ieri stava consapevolmente contando le sue ultime ore di vita. Entro la fine della giornata sarebbe stato giustiziato.
Per la seconda volta.
Perché questa era la certezza: Kenneth Eugene Smith doveva morire.
Sia chiaro: non era innocente. A 23 anni aveva assassinato una donna, su commissione. Il marito l’aveva pagato mille dollari per ucciderla; sperava così di incassare i soldi dell’assicurazione e liberarsi finalmente dei molti debiti che aveva accumulato. Si era però tolto la vita quando il cerchio delle indagini gli si era stretto attorno.
In prigione c’era dunque finito soltanto Kenneth, che, al processo, la giuria, con verdetto quasi unanime (11-1), aveva deciso di condannare all’ergastolo.
Sin da quella prima volta, tuttavia, c’era stato contro di lui una sorta di accanimento: il giudice, avvalendosi dell’“override” – la facoltà di annullare il verdetto della giuria, che, fino al 2017, era ancora consentita in Alabama – aveva deciso che dovesse invece essere mandato a morte.
Per la verità, i legislatori dell'Alabama l’avevano fatto un tentativo di prevedere che la norma del 2017 che aboliva l’override fosse applicabile retroattivamente; ma i pubblici ministeri statali avevano invece sostenuto che la nuova legge non avrebbe potuto impedire di giustiziare persone che – come Kenneth – fossero state condannate a morte da giudici che avessero annullato i verdetti di condanna all’ergastolo emessi dalla giuria prima del 2017.
Di fatto, però, Kenneth aveva quasi scontato anche un ergastolo, giacché era rimasto in prigione più di trent’anni prima che, a novembre del 2022, si desse esecuzione alla condanna capitale.
Una mattina era stato dunque prelevato, portato in un’altra cella e legato sul lettino dove gli sarebbe stata praticata l’iniezione letale.
Per circa due ore, però, il personale addetto a quell’operazione aveva tentato di trovare la vena in cui inserire l’ago. Dolore fisico e stress psicologico avevano torturato Kenneth per tutto quel tempo, finché l’esecuzione era stata sospesa.
Tutto da rifare. Avendo cura, però, di scegliere per la volta successiva una modalità più sicura, che potesse garantire il “risultato”.
E quale occasione migliore per testare un nuovo strumento di morte, adottato da tempo ma mai ancora praticato?!
Ecco, sarebbe spettato alla cavia-Kenneth il primato – non solo in Alabama, ma nel mondo – d’esser giustiziato mediante ipossia da azoto.
Chi pratica attività subacquea conosce la narcosi da azoto o “ebbrezza da profondità”. E’ quella sensazione di stordimento provocata dal respirare l’azoto contenuto nelle bombole quando ne aumenta la pressione a causa dell’eccessiva profondità: i riflessi rallentano, la mente perde lucidità fino al punto di smarrire la percezione del pericolo, col rischio, quindi, di compiere azioni dannose. Allo stesso modo, una risalita troppo veloce può provocare embolia gassosa, per effetto dell’espandersi delle bolle d’azoto accumulatesi nell’organismo.
E, tuttavia, quello contenuto nelle bombole non è azoto puro: è miscelato con l’ossigeno, e ciò lo rende, appunto respirabile.
Invece, privato dell’ossigeno, l’azoto, se respirato, provoca, nel giro di qualche minuto, la paralisi di tutti gli organi vitali e, dunque, la morte per soffocamento. Che non è certo immediata né indolore.
Il “protocollo” dell’esecuzione mediante ipossia d’azoto prevede che al condannato – saldamente legato al lettino - sia applicata una maschera che gli sigilla il volto, attraverso la quale viene insufflato azoto puro per quindici minuti, il tempo necessario a provocare il soffocamento. Ma se la maschera avesse perdite e, dunque, entrasse un po’ di ossigeno, si potrebbero innescare invece effetti ischemici con la conseguenza di provocare danni irreversibili, ma non la morte.
Quest’ultima parte almeno a Kenneth è stata risparmiata.
Alle 8:25 del 25 gennaio, dopo 37 minuti dall’inizio del “trattamento”, Kenneth è stato dichiarato morto.
Chi c’era ha descritto una sequenza tragica, che farebbe ricredere anche i più convinti assertori dell’esemplarità della pena: molti minuti di piena coscienza, poi un paio in cui il corpo legato alla lettiga è stato scosso da fremiti, lunghi respiri affannati lentamente diventati sempre più deboli, infine la quiete.
No, non è stato certo indolore. Come può essere indolore morire soffocati?
Lo sarebbe stato una ghigliottina, una pallottola alla tempia, un qualsiasi altro modo con cui, fulmineamente e senza intervalli di consapevolezza la vita lascia posto alla morte. E nemmeno quella potrebbe certo definirsi una modalità umana, dolce o meno orribile di uccidere. Perché in finale di questo si tratta: di un assassinio.
Ma ancor più disumanamente, biecamente, cinicamente si è deciso che a Kenneth il vantaggio dell’immediatezza non dovesse concedersi, che dovesse essere la cavia deputata a sperimentare un metodo mai provato prima. La Corte Suprema americana pochi giorni prima dell’esecuzione aveva difatti respinto il ricorso dei suoi legali teso a dimostrare che quel metodo di esecuzione viola le protezioni dell'ottavo emendamento della Costituzione contro punizioni crudeli e inusuali.
Strani e contraddittori esseri sono gli uomini: c’è chi si accanisce a voler far guarire e chi a voler far morire; ci sono quelli che difendono la vita ad ogni costo e quelli che si arrogano il diritto di decidere quando e come toglierla; molti condannano la crudeltà perpetrata verso un intero popolo, altri non sono invece in grado di riconoscerla nemmeno se diretta ad un singolo individuo!