C’è una sorta di “codice d’onore” che vige nelle carceri. Vale nei confronti di chi si sia macchiato di crimini che pesano di più persino in un luogo come quello, dove sono tutti colpevoli. E ad applicarlo sono gli stessi detenuti, quelli che rivendicano la pretesa di far da giustizieri quando l’azione di fare giustizia compiuta dai tribunali non sia ritenuta sufficiente.
Non discende evidentemente da regole scritte, rispondendo piuttosto a pratiche consuetudinarie, alla stregua del Kanun albanese, con cui parrebbe avere in comune il sistema della vendetta di sangue. Non ha, conseguentemente, alcuna liceità e, anzi, il servirsene è, a sua volta, fonte di responsabilità penalmente perseguibile e, dunque, di ulteriore condanna.
Eppure l’applicazione di quel codice continua a registrare episodi frequenti nelle carceri italiane, spesso persino con la complicità degli stessi agenti penitenziari, che “si voltano dall’altra parte” quando non sono essi stessi i sospettati esecutori di condanne di cui non sono autori tribunali di diritto.
Sono solitamente i detenuti definiti “sex offenders” i destinatari delle pene previste dal codice e, dunque, stupratori, autori di reati sessuali a vario titolo, pedofili soprattutto.
Percosse, torture, sevizie - talvolta tanto violente da concludersi con una vera e propria esecuzione capitale che viene poi mascherata da suicidio – sono la seconda condanna che quei rei devono scontare. A dispetto del percorso di riabilitazione che lo Stato dovrebbe garantire ad ogni detenuto, fosse anche il più infimo tra gli assassini.
Eccolo dunque il punto da indagare: l’inefficienza di un sistema che sovente non è altro che la prosecuzione di precedenti inefficienze registrate quando un intervento tempestivo avrebbe persino potuto evitare che ci fosse un colpevole e che ci fosse una pena.
Il caso concreto più recente è quello di Alberto Scagni, l’uomo che nel 2022, a Genova, uccise con diciassette coltellate sua sorella Alice (cfr. “
Al di là della colpa” in Fiscal Focus del 7 maggio 2022).
Già all’epoca dei fatti, i genitori di Alberto avevano contestato l’operato della polizia, denunciando che, se fosse intervenuta a seguito delle numerose segnalazioni che riferivano della pericolosità del figlio, avrebbe potuto salvare Alice. Nei due mesi precedenti l’omicidio, infatti, i familiari si erano più volte rivolti alla polizia segnalando il comportamento aggressivo di Alberto e le minacce che continuavano a ricevere; quattro giorni prima dell’assassinio, il 112 era stato chiamato addirittura cinque volte, ma la risposta era stata un laconico "Non facciamola tragica”. Il TSO, invocato più volte, era stato disposto solo il giorno dopo che Alberto aveva ucciso Alice.
“Domenica mattina non c'erano volanti da mandare, ma domenica notte per non farmi vedere il corpo della mia bambina c'erano 30 agenti”, aveva amaramente commentato la madre di Alice dopo la sua morte.
Ora quelle accuse ritornano, come un’eco che rimanda ad un ulteriore rimprovero di inefficienza.
Alberto – condannato a 24 anni e 6 mesi di reclusione – nel carcere di Genova Marassi era già stato aggredito una prima volta dal compagno di cella, che lo aveva preso a pugni dopo aver letto un articolo su di lui e sulla vicenda processuale per il delitto della sorella.
Spostato prima in una cella singola, era stato poi trasferito al carcere di Sanremo, nella sezione “detenuti protetti”. E qui, lo scorso 22 novembre, ha subito una nuova e più violenta aggressione: due detenuti magrebini lo hanno sequestrato e massacrato di botte, colpendolo persino con uno sgabello, e provocandogli lesioni talmente gravi che ora Alberto è ricoverato, in coma farmacologico, dopo aver subito un intervento chirurgico al volto.
I due pare che si fossero ubriacati, utilizzando l'alcol ottenuto con la macerazione della frutta, e sarebbe stato necessario l’intervento di un gruppo di agenti con caschi protettivi e scudi per salvare l’ostaggio.
Se fosse la scena di un noto film degli anni ’90, con un magnifico Jack Nicholson, si potrebbe quasi sentire la voce incalzante di Tom Cruise che domanda: “Ordinò lei il codice rosso?” E la risposta sarebbe: SI, perché è così che funziona nelle carceri, che non sono niente affatto – per questo e per altri motivi tristemente noti – luoghi sicuri e protetti.
Come dar torto allora alle accuse di quella madre, che dopo aver già pianto la morte di Alice, sembra quasi rassegnata a dover piangere anche quella di Alberto: "
tollerare questa violenza sembra quasi una vendetta indiretta per il fatto che abbiamo denunciato i poliziotti e le strutture di igiene mentale che non intervennero a fermare nostro figlio quando minacciava di uccidere sua sorella. Il massacro di nostro figlio sembra quasi un delitto su commissione, o comunque consentito e tollerato dal sistema carcerario. Lo Stato ha fatto in modo che Alice morisse e finirà per restituirci un cadavere anche con Alberto. Ci aspettiamo una nuova aggressione a nostro figlio. La temiamo. E sappiamo che questo accontenterà la pancia di molte persone perché ormai in Italia più che la giustizia ci si aspetta la vendetta.”
Serve aggiungere altro? Quali altre evidenze sono necessarie per poter reclamare ancora una volta un serio intervento di riordino e pulizia del sistema carcerario, dacché i detenuti sembrano essere più ostaggi dello Stato che non individui da redimere e riqualificare?