Il Superbonus è come la corrente elettrica: avvicinarsi troppo equivale a prendere la scossa. Ancora oggi, malgrado lo scorso maggio il governo abbia drasticamente limitato l’agevolazione fiscale voluta nel 2020 dal Decreto Rilancio, che permetteva una detrazione del 110% delle spese sostenute per interventi di efficienza energetica e consolidamento, è sufficiente evocare il Superbonus per aprire baratri immensi fatti di inefficienze, ruberie e storture.
Una bandiera del governo Conte diventato un nervo scoperto su cui si è consumata un’asprissima battaglia politica e soprattutto un’eredità difficile da gestire. Per dirla con i numeri, lo scorso maggio la Cgia di Mestre ha stimato per il Superbonus 110% un costo pubblico complessivo pari a 122,6 miliardi di euro in detrazioni fiscali. Se invece di finanziare l’edilizia privata, com’era nelle intenzioni di Conte, il Governo avesse usato gli stessi denari per costruire alloggi pubblici, oggi l’Italia potrebbe contare su più di 1,2 milioni di unità abitative.
Tanto è vero che il fantasma del Superbonus continua ad essere evocato, questa volta sottoforma di denunce e querele per truffe, raggiri, subappalti fumosi, inadempienze contrattuali e lavori non in regola che intasano le procure italiane, depositate da decine e decine di proprietari di immobili colpevoli solo di essersi fidati e aver sborsato denari in contanti. Gente che, malgrado abbia agito in buona fede, si è ritrovata a fare i conti con ponteggi abbandonati di colpo, oppure con lavori mai conclusi o finiti malamente e perfino con materiali così scadenti da aver bisogno di una manutenzione già a pochi mesi di distanza. Sono le bellezze di un colabrodo che ha dissetato centinaia di migliaia di imprese, leste a fare i preventivi e decisamente meno veloci a consegnare lavori incerti a cui sono bastati pochi mesi per mostrarsi in tutta la loro inutilità: non sono affatto rari i casi di cappotti termici eseguiti così male da aver causato muffe infiltrazioni peggiori a quanto accadeva prima dei lavori. Ennesimo esempio pratico del detto popolare “si stava meglio quando si stava peggio”.
Secondo un’analisi delle Camere di Commercio realizzata sui dati forniti dal registro delle Imprese delle Camere di Commercio, a metà del 2020 si era assistito ad un vero boom di iscrizioni per più di 30mila imprese con codici Ateco riferiti a edilizia, costruzioni e impiantistica che avrebbero dovuto accendere i radar, visto che molte nascevano con 1.000 euro di capitale sociale. Di queste, alla fine dello scorso anno 11mila hanno miseramente richiesto la “cessazione di attività”.
Una situazione che conoscono bene anche i centralini e le email dei movimenti per i consumatori, letteralmente mandati in tilt da segnalazioni e richieste di consulenze per capire cosa fare. In realtà, la risposta è più o meno sempre la stessa: meglio rivolgersi alla giustizia mettendo in conto l’ulteriore spesa di un avvocato o un'associazione di tutela dei consumatori disposti a difendere interi condomini rimasti con i lavori eseguiti alla spera in Dio, o vittime di prezzi gonfiati ad arte per mettere mano ai rimborsi di Stato. Il tutto, mettendo nel conto finale una penalizzazione in più: in questo genere di cause, i tempi sfiorano l’eternità.
“L’unico responsabile è lo Stato o meglio due Governi, Draghi e Meloni, che con 35 modifiche normative hanno complicato tutto, e i crediti sono diventati carta straccia – tuona Claudio Ardizio, dell’associazione Esodati del superbonus - ci sono, poi, le conseguenze sugli operai, vittime del raffreddamento dell’edilizia dopo anni di boom. “E non affatto è difficile prevedere un ulteriore peggioramento”, conclude Antonio Lombardi, presidente di Federcepicostruzioni.
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