Indietro tutta: sullo smart working le lancette vanno riportate fino a prima del periodo buio del Covid. Da oggi scatta infatti lo stop alle procedure semplificate che erano state attivate per tutelare i lavoratori considerati “fragili” perché affetti da patologie gravi e rischiose o genitori di figli under 14.
In pratica, torna in vigore la legge n. 81/2017, a firma dell’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, che prevede per chi preferisce la modalità di lavoro agile nel settore privato la necessità di raggiungere un accordo con l’azienda o il datore di lavoro. E attenzione, perché l’azienda che non stipula un accordo individuale con il lavoratore (anche per i fragili o con figli under 14 anni), rischia una sanzione da 100 a 500 euro per ogni dipendente se non comunica entro 5 giorni l’avvio del lavoro in modalità smart. Nel pubblico, al contrario, l’organizzazione del lavoro da remoto viene demandata ai dirigenti, chiamati a stilare i piani organizzativi che, in base ad una direttiva del ministro Zangrillo, per i lavoratori fragili possono superare il criterio della maggiore presenza fisica sul posto di lavoro.
Ma mentre nella P.A. le decisioni variano notevolmente da ufficio a ufficio, in base alla visione dei dirigenti, nel privato si assiste ad una solenne marcia indietro compatta: il lavoro ibrido, quando resta, si limita spesso a qualche giornata al mese, e non di più.
Negli anni il trend del lavoro da remoto è cresciuto parecchio, attestandosi ai 3,58 milioni di lavoratori in smart working dello scorso anno contro i 3,57 del 2022, anche se quest’ultimo numero rappresenta al meglio i contorni del fenomeno, che significa aver toccato il 541% in più rispetto agli anni pre-covid. E con stime previste dall’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano che parlano di 3,65 milioni di smart-worker entro il 2026.
Secondo il giuslavorista Francesco Rotondi, consigliere del Cnel e fondatore dello studio LabLaw, “Alla prima fase di scetticismo, è seguita una fase di ottimismo eccessivo che ha per certi aspetti sottovalutato la necessità di coniugare lo smart working con lo ‘stile organizzativo’ delle imprese. Si discute della necessità di un restyling normativo della legge del 2017, anche se la criticità maggiore pare essere quella che riguarda l'adattamento dell'organizzazione aziendale allo strumento. Perché è emersa con prepotenza un’istanza sociale che individua nello smart working uno strumento assai efficace di conciliazione dei tempi di lavoro, di cura e di vita, che si spinge fino a invocare un ‘diritto’ allo smart working”.
La sensazione di poter gestire al meglio le proprie giornate e gli impegni familiari pur in presenza di orari di lavoro, in questi anni è stata anche oggetto di numerosi studi e analisi che, quasi tutti, sono arrivati alla conclusione che smaltita la novità, a lungo andare lo smart working provoca isolamento, incrina il rapporto con i colleghi ed è vissuto come un peggioramento della propria condizione lavorativa, oltre ad una velata preclusione alle possibilità di carriera. Una condizione particolarmente avvertita nella fascia di età dai 45 anni in su, nello specifico da soggetti single. Per contro, sono altrettante le analisi che dimostrano quanto un lavoratore in smart working per due soli giorni a settimana riesca a risparmiare circa 1000 euro all’anno di spese di trasporto, evitando anche l’emissione di 480 kg di CO2.
“Lo smartworking non va liquidato come un tema di emergenza, ma dovrebbe far parte di una riorganizzazione complessiva in cui si tiene conto delle esigenze del lavoratore e del datore. Diciamo che l'optimum è una forma mista, in presenza e in remoto - ha confidato all’agenzia “AdnKronos” David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell'Ordine degli psicologi - mantenere un certo livello di presenza all'interno dei contesti lavorativi è un fatto importante. Ma non c'è una risposta netta alla domanda “meglio smartworking o tutti in ufficio?”. Si deve tener conto che oggi il lavoro da remoto deve essere un’opzione offerta al lavoratore. Si può pensare magari a metà giorni in presenza e l'altra meta a casa. Abbiamo bisogno flessibilità per le esigenze psicologiche del lavoratore, ma al contempo anche nel rispetto delle scelte delle aziende”.
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