Numeri alla mano, l’unica voce che riesce a dare conforto ai lavoratori sono i “fringe benefit”, la forma non obbligatoria di welfare aziendale sotto forma di retribuzione non in denaro destinata ai dipendenti. Un tempo rappresentata dal cellulare, l’auto aziendale e i buoni pasto, la categoria dei “benefici accessori” si è arricchita in tempi recenti fino a toccare le bollette di acqua, luce e gas, le spese per l’affitto, le borse di studio, i voucher e gli interessi del mutuo prima casa.
Voci che convengono tanto al lavoratore quanto all’azienda: per i primi perché non concorrono (entro limiti precisi) alla formazione del reddito, mentre per le aziende rappresentano l’occasione di poter ridurre il carico contributivo e fiscale.
Ma voci, soprattutto, che in qualche modo hanno permesso alle famiglie di parare il colpo, sottolineato dal rapporto Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), secondo cui fra il 1991 ed il 2022 in Italia la media degli stipendi è rimasta pressoché invariata – anzi, la perdita reale è stimata nel 2,9% - mentre la media dell’aera Ocse indica una crescita del 32,5%. In più, l’aggiunta dell’inflazione nel 2022 ha fatto letteralmente crollare di un terzo il reddito disponibile per le famiglie meno abbienti, a cui si è aggiunto un ulteriore -4% nell’anno successivo.
Poco sollievo, anche secondo Bankitalia, è riuscito finora a dare il taglio del cuneo contributivo, che in più si porta il rischio di “modificare il nesso tra contributi versati e benefici erogati alla base del sistema pensionistico contributivo, con conseguenze che andrebbero attentamente valutate”. L’unica voce positiva, al netto di un circolo vizioso che attraverso le tasse riportano i soldi nelle casse dell’Inps per ricominciare il giro da capo, sono appunto i fringe benefit, altrimenti detti premi di risultato: per loro stessa natura non assoggettabili a imposte e contributi sociali.
L’idea, introdotta dal governo Draghi e ripresa da quello Meloni, era partita nel 2022 con i 3.000 euro previsi dal DL Aiuti, contribuendo a eliminare nelle voci della traballante spesa familiare le voci per i prodotti alimentari e i carburanti, le due categorie verso cui sono stati maggiormente utilizzati i buoni acquisto Edenred.
Ma purtroppo, secondo una recentissima ricerca della “The European House Ambrosetti (TEHA)” per “Edenred Italia”, lo strumento dei fringe benefit in Italia può essere definitivo con un semplice aggettivo: sottoutilizzato.
Il motivo, sempre secondo la ricerca, è che il 40% delle aziende avrebbe deciso di rinunciare dal 2023 per il “timore di creare disparità e malcontento tra i dipendenti, causato dall’eccessiva differenza di trattamento tra lavoratori con e senza figli”.
Tutt’altro che casi isolati, visto che nel campione di 273 aziende utilizzate nella ricerca, il 96% degli amministratori sono convinti che i fringe benefit possano rappresentare degli “acceleratori di benessere e inclusione per i propri dipendenti”, ma secondo 4 alti dirigenti su 5 meglio sarebbe se i dipendenti potessero usufruire di “soglie di esenzione uguali per tutti”. Disparità che per scongiurare litigi, lotte e proteste interne, hanno spinto gli stessi a eliminare radicalmente la voce fringe benefit, utilizzati lo scorso anno soltanto dal 28% delle aziende interpellate per la survey.
E questo, malgrado le misure abbiano permesso di incrementare i consumi delle famiglie del 3,4% rispetto al 2019, ma lasciando dietro di sé una scia divisa equamente fra soddisfatti e decisamente meno: i primi, quelli con figli, per la soglia di esenzione massima era di 3mila euro, mentre per tutti gli altri il limite di 258,23 euro abbia scatenato malumori insostenibili.
A tentare di “democratizzare” ulteriormente la situazione ci pensano le nuove soglie 2024 (1000 senza figli, 2000 con), che assottigliano la differenza spingendo TEHA Ambrosetti a concludere che i consumi familiari legati alla forma di welfare aziendale saliranno di un ulteriore 0,8% rispetto allo scorso anno. E senza litigare, per favore.