30 settembre 2023
evasione carcere
30 settembre 2023

Giustizia riparativa

Autore: Ester Annetta
L’omicidio di Carol Maltesi è durato tre mesi.

Sembrerebbe una frase priva di senso se si considera che la morte è un atto istantaneo, benché possa essere preceduto da una più o meno lunga agonia. Allo stesso modo, un omicidio diventa tecnicamente tale - anche secondo le norme penali - nel momento in cui il delitto si consuma, altrimenti resta un tentativo. Può poi presentare caratteri di particolare efferatezza, ma, ad ogni modo, si identifica con l’azione cui consegue direttamente o indirettamente la morte.

Quello di Carol è però un caso diverso, perché il suo assassino – Davide Fontana – ha continuato ad ucciderla più di una volta, rivedendone la macabra sceneggiatura in tempi e luoghi diversi.

Il primo atto della tragica sequenza risale al 10 gennaio 2022.

Carol ha 25 anni, fa l’attrice hard e in arte si fa chiamare Charlotte Angie. Vive nello stesso palazzo di Davide, 43 anni, bancario con la passione per il cibo, tanto che ha persino un blog abbastanza seguito. Tra i due c’è anche una relazione, di quelle un po’ particolari, dov’è difficile cogliere la compatibilità tra sentimento e sesso, forse anche per via del lavoro di Carol che, di certo, induce a qualche pregiudizio. Anzi, proprio la circostanza che Carol sia una ragazza “disinibita” – come l’ha definita la sentenza che ha poi condannato Davide – avrebbe declassato in qualche modo il suo femminicidio, tanto da far rigettare la richiesta di ergastolo avanzata per il suo assassino. Ma questa è un’altra storia.

Quella mattina, dunque, Davide va a casa di Carol per girare un paio di video hard col telefonino, ed è proprio durante una di quelle performance che scatta la sua furia omicida: comincia a prendere a martellate la ragazza mentre continua a filmare; poi, con un coltello da cucina le taglia la gola e la lascia lì, ormai senza vita.

L’indomani, in un negozio di bricolage compra un’accetta e un seghetto da metallo; poi torna a casa e svolge regolarmente il suo lavoro in smart working. Dal suo pc, acquista su Amazon un freezer e un braciere: Davide ha chiaro come dovrà utilizzare tutti quegli strumenti per il secondo atto del suo omicidio. Dunque, quando termina il suo turno di lavoro, torna a casa di Carol e la uccide una seconda volta, facendo pazientemente il suo corpo in pezzi che raccoglie dentro dei sacchi neri.

Qualche giorno dopo si reca con quei sacchi in una casa isolata che ha appositamente affittato in montagna. Vorrebbe bruciarlo lì ciò che resta di Carol, ma rivede questo terzo atto della sua perversa sceneggiatura e torna a casa, dove intanto ha sistemato il freezer. Ed lì dentro che ripone i sacchi.

Nei giorni a seguire tutto scorre ordinariamente: il lavoro di Davide ma anche le relazioni social di Carol, giacché lui conosce tutte le sue password e continua ad interagire al suo posto con fans e ‘clienti’. L’idea è quella di allontanarsi gradualmente dai social fingendo la necessità di una pausa di riflessione.

Paga anche regolarmente l’affitto di casa di Carol, perché conosce pure le credenziali della sua home banking. Nulla, quindi, può destare sospetto.

Il telefono e i social di Carol però continuano ad essere troppo animati perché Davide possa continuare a gestirli e, dunque, temendo che prima o poi qualcuno si accorga della sua scomparsa, decide che è tempo di mettere in scena il quarto atto: disfarsi dei sacchi riposti nel freezer. Prima, però, deve cercare di cancellare quei tatuaggi che potrebbero consentire l’identificazione della ragazza, asportando con una lama i lembi di pelle dove sono incisi.

È ormai la fine di marzo quando Davide carica i sacchi nell’auto della stessa Carol, imbocca una strada che qualche giorno prima ha supervisionato, e li getta giù per la scarpata che la costeggia.

Il finale di questo lungo omicidio è di poco successivo, quando qualcuno trova i sacchi e Davide, primo sospettato, ne confessa prontamente, e con dovizia di particolari, la macabra sequenza.

Fin qui la cronaca, lunga ma necessaria, giacché è alla luce di questi raccapriccianti dettagli che va valutato il tema che tanto sta facendo discutere in questi giorni.

Davide, reo confesso, è stato condannato in primo grado (soltanto) a trent’anni di carcere. Ma pochi giorni fa ha chiesto alla Corte d’Assise di Busto Arsizio l’accesso alla ‘giustizia riparativa’ – l’istituto introdotta dalla riforma Cartabia (D.lgs. n. 150 del 2022 di attuazione della L. 134/2021) in esecuzione delle molteplici disposizioni presenti a riguardo in ambito europeo ed internazionale - dichiarando di aver bisogno di riparare alla sua condotta e di essere disposto a fare “qualsiasi cosa si possa fare anche verso i parenti di Carol o altre associazioni”.

Serve a questo punto aprire una parentesi per ricordare in cosa consista il predetto istituto, che con Davide Fontana viene applicato per la prima volta da quando la riforma Cartabia è entrata in vigore.

L’art. 42 del citato D.lgs. definisce ‘giustizia riparativa’ «ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore».

L’obiettivo di tali programmi è quello di ottenere una riparazione all’offesa commessa dal reo, consistente nella ricostruzione del legame spezzato tra vittima, reo stesso e comunità. Può trattarsi anche di una riparazione simbolica e tradursi, quindi, in dichiarazioni, scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla società, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi; oppure può essere materiale, e sostanziarsi nel risarcimento del danno, in restituzioni, nell’adoperarsi per eliminare o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori (art. 56).

I programmi di giustizia riparativa si svolgono presso i ‘Centri per la giustizia riparativa’, apposite strutture istituite presso gli enti locali a cui competono le attività relative all’organizzazione, gestione, erogazione e svolgimento dei programmi.

L’accesso al programma è consentito al reo per qualsiasi reato abbia commesso, a prescindere dalla sua gravità, e la richiesta può essere presentata in ogni stato e grado del procedimento (persino all’esito di una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere).

Orbene, alla luce di tali caratteristiche, nel caso di specie sorge spontanea la domanda: è possibile che Davide Fontana, autore di un omicidio tanto efferato, di una pianificazione così accurata, d’una freddezza spietata, sia, a distanza soltanto di un anno e mezzo dal suo assurdo delitto, “pronto a riparare la sua condotta” e a relazionarsi con i parenti della vittima, in primis il figlio di soli 7 anni? Cosa potrebbe raccontargli? In che modo potrebbe presentarglisi senza far pesare d’essere l’assassino di sua madre?

Non sorprende affatto la reazione dei genitori di Carol, che di fronte alla richiesta dell’omicida della loro figlia si sono sentiti assassinati a loro volta, traditi nella fiducia verso una giustizia che, atteggiandosi a riparatrice, mantiene evidentemente soltanto una visione unilaterale, dal lato del reo, e pratica senza tenere in debita considerazione l’aspetto umano ed emozionale di chi, oltre ad aver subito il dolore di una perdita ingiusta, fatica a ricostruire equilibrio e serenità proprio a causa di quell’assenza.

Se è vero che la giustizia dev’essere oggettiva, perché adottare una formula ‘riparativa’ che sembra comportare un disequilibrio?

Verrebbe allora da concludere che anche con quest’ultima riforma si è persa un’occasione: prima di tentare opinabili e improbabili tecniche di reinserimento degli ‘autori dell’offesa’ sarebbe stato molto più utile ed efficace intervenire sul riordino del sistema carcerario per garantire, semplicemente, l’ottimale ed esatta operatività di un principio – la funzione rieducativa della pena - che già esiste ed è vecchio almeno quanto la nostra Costituzione.

Rendere le carceri luoghi adatti al recupero della persona e della sua dignità anziché palestre di sopravvivenza da cui si esce ancora peggiori: questa, si, che sarebbe una vera ‘riparazione’. In ogni senso.
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