Anche negli Stati Uniti, la bolla anarchica della pandemia sembra ormai del tutto rientrata: lo smart working latita un po’ ovunque, e gli uffici un tempo svuotati dal timore del contagio sono tornati ad affollare gli immensi grattacieli delle skyline. Ma qualche sintomo è rimasto impigliato nel desiderio di poter contare su scampoli di vita privata in più, ed è legato al venerdì, quello che all’inizio degli “Eighties”, i facili anni ’80, era stato celebrato da “Thank God is Friday” (Grazie a Dio è venerdì), il titolo di un film in realtà dedicato al fenomeno delle discoteche affollate nei fine settimana, e un decennio dopo, negli anni Novanta, era diventato celebre come il “casual Friday”, ovvero la giornata in cui ai famigerati “colletti bianchi” era concesso un abbigliamento più rilassato e informale in odore di weekend. Ma i tempi cambiano e i weekend si allungano, trascinandosi per intero il venerdì, un tempo ultimo giorno lavorativo della settimana e oggi primo del sacro fine settimana.
Ormai è un fenomeno che attraversa gli States da nord a sud, finito addirittura come protagonista di un’inchiesta del “Wall Street Journal” che è arrivata a definire “ghost town” le zone degli uffici, rendendo chiara l’idea di un’autentica fuga di massa che scatta il venerdì e svuota i centri direzionali fino al lunedì successivo.
A conforto dell’inchiesta è arrivato anche un report della “ActivTrak”, azienda texana specializzata nei software di analisi della forza lavoro e della produttività, che dopo aver ascoltato pareri, pensieri e opinioni di circa 75mila lavoratori americani è arrivata alla conclusione che dal 2021, quando nei giorni peggiori della pandemia il lavoro da remoto obbligava a fare le ore piccole, oggi la tendenza comune quando arriva il venerdì è di staccare la spina intorno alle 16:30. Più o meno un’ora prima del resto della settimana che, secondo altre indagini di mercato, diventa un modo per concedersi un po’ di “coccole”, come confermato dall’aumento esponenziale di prenotazioni in spa, centri di bellezza, parrucchieri, visagisti, massaggiatori, palestre e via così.
E le aziende, dal canto loro, accettano di buon grado il nuovo trend, perché a conti fatti quell’oretta in più spesso si trasforma in una cura contro gli effetti negativi del burnout e peggio ancora, scongiura quelli ancora più nocivi delle dimissioni di massa che avevano rischiato di mettere in ginocchio il Paese.
Già, e in Italia? Dopo un timido inizio sperimentale di “Time4You”, il progetto di settimana corta su base volontaria che ha coinvolto circa 10mila dipendenti della “Luxottica”, al lavoro dal lunedì al giovedì a parità di salario, l’idea ha finito per scivolare fino a Sant’Agata Bolognese, sede della “Lamborghini”, dove azienda e sindacati hanno raggiunto l’accordo per una settimana lavorativa di 33,5 ore. In pratica, l’alternarsi di una settimana da 4 giorni con una da 5 per chi lavora su due turni, e due settimane da 4 giorni con una da 5 per quanti invece sono impiegati su tre.
Ma c’è di più, perché su proposta dei partiti di opposizione, la settimana corta è approdata in Parlamento. La prima, firmata da Alleanza Verdi e Sinistra, si concentra sulla “riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, per favorire un aumento dell’occupazione in alcuni comparti produttivi, poiché esiste un rapporto chiaro tra orari ridotti e tassi di occupazione più elevati”. La soluzione sarebbe di ridurre l’orario di lavoro a 34 ore a parità di retribuzione e di istituire un fondo per incentivare i datori di lavoro a diminuire del 10% l’orario settimanale.
Leggermente diversa la proposta del Movimento 5 Stelle, secondo cui “Una riduzione totale delle ore lavorate senza compromettere la produttività, consentendo alle organizzazioni sindacali la possibilità di stipulare contratti di lavoro a parità di stipendio fino a un minimo di 32 ore, spalmate sugli attuali giorni lavorativi o sulla soglia minima di quattro, con esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assicurativi fino a 8.000 euro annuali per aziende e datori di lavoro”.
Per concludere con la proposta del PD, “un provvedimento di sostegno della contrattazione collettiva che, nel rispetto del ruolo delle parti sociali, incentivi la sperimentazione di quelle soluzioni che contestualmente consentano incrementi della produttività e riduzione dell’orario di lavoro, a parità di retribuzione. L’incentivo per i datori di lavoro è l’esonero del 30% dei complessivi contributi previdenziali dovuti per il periodo di sperimentazione. Percentuale che salirebbe al 40% nel caso l’oggetto della riduzione siano prestazioni lavorative usuranti o gravose”.