C’è una celebre locuzione latina, tratta dal prologo dell’”Epitoma rei militaris” - opera scritta nel IV secolo d.C. dallo scrittore romano Publio Vegezio Renato - che recita: “Si vis pacem, para bellum” (“se vuoi la pace, prepara la guerra”).
Già usata qualche secolo prima da Cicerone nella sua settima Philippica (“Si pace frui volumus, bellum gerendum est”, cioè "Se vogliamo godere della pace, bisogna fare la guerra"), l’espressione viene intesa con più significati: il più immediato è quello “machiavellico”, secondo cui essere armati e in grado di difendersi è uno dei mezzi più efficaci per assicurare la pace; c’è poi quello che attribuisce al combattimento un valore “didattico”, per cui sono proprio coloro che devono combattere a meglio comprendere ed apprezzare la pace; infine, e più sottilmente, c’è quello che richiama il motto – francese prima, asburgico poi – del “divide et impera” (“dividi e comanda”) secondo cui un espediente per meglio controllare e governare un popolo è avere (o creare) un nemico all'esterno o al suo stesso interno, così da ingenerare discordia o rivalità e, dunque, far leva sulla “paura del nemico” (il “metus hostilis”, come lo chiamava Sallustio) come strumento di unione "nazionale".
Il rimando a queste espressioni nasce da alcune considerazioni che emergono di fronte all’evolversi della guerra russo-ucraina, in particolare da quella che già a prima vista appare essere, secondo il comune buon senso di chi non ha alcuna dimestichezza con le strategie belliche, una nota discordante: come si può pensare di giungere ad una pace se si continua ad armare il conflitto?
A ben vedere, però, questa sorta di ossimoro per cui sembra che guerra e pace siano tra loro legate da un vincolo di reciproca propedeuticità, è piuttosto ricorrente e avvalorato da significative evidenze storiche.
Senza andare troppo indietro nel tempo, basta rivedere ciò che accadde all’indomani della fine della Seconda Guerra mondiale: per impedire il ripetersi di conflitti della stessa portata, furono istituite le Nazioni Unite, il cui scopo dichiarato era – ed è – di mantenere la pace e la sicurezza internazionale, promuovendo relazioni pacifiche fra le nazioni, cooperando nella risoluzione dei problemi internazionali, garantendo il rispetto per i diritti umani.
Contemporaneamente, però, si crearono due alleanze militari, tra loro opposte: la NATO, formata dal blocco occidentale, di stampo capitalista, che riuniva Usa, Canada e alcune nazioni europee; e il Patto di Varsavia, il blocco orientale, socialista, formato da Unione Sovietica e da qualche altro paese europeo della stessa matrice ideologica. Ed ebbe così inizio la gara agli armamenti.
Né, alla fine degli anni ottanta, con la disgregazione del sistema socialista e la dissoluzione del Patto di Varsavia, le cose cambiarono, giacché non fu affatto inaugurato un percorso inverso, verso il disarmo e lo smantellamento degli arsenali. Piuttosto, la NATO anziché ridimensionarsi si rafforzò, accogliendo molti paesi ex-comunisti, sicché oggi i trenta paesi che la compongono sono complessivamente quelli che spendono in armamenti una cifra che corrisponde a oltre le metà di quella mondiale.
Ritornando all’attuale conflitto, ciò che si evidenzia è, ancora una volta, la valenza strumentale della guerra, intesa stavolta nella terza delle accezioni sopra richiamate, dunque come rimedio al metus hostilis, alla paura del nemico che, per la Russia, è rappresentato (almeno nelle intenzioni dichiarate) dalla NATO e dal suo pericoloso avvicinarsi ai suoi confini nazionali, qualora l’Ucraina entrasse a farne parte.
Da qui, dunque, la soluzione dell’invasione armata, una scelta di prepotenza che – in alternativa alle vie diplomatiche – tenderebbe comunque ad ottenere lo stesso risultato, e cioè la garanzia che l’Ucraina resti una “zona cuscinetto” tra la Russia e la NATO da cui evidentemente la prima si sente braccata.
La domanda che ci si pone è allora se sia giusto assecondare - indirettamente - quell’ibrido sentimento di prepotenza-paura di Putin (che, in verità, spesso appare molto più prossimo a quella hybris che, per i greci antichi, indicava l'orgogliosa tracotanza che porta l'uomo ad affermare la propria superba superiorità e a ribellarsi all’ordine costituito – umano o divino che sia – traducendosi in un vero e proprio delirio di onnipotenza), e le azioni che ne derivano, continuando a fornire armamenti all’Ucraina in vista di una possibile risoluzione del conflitto e, dunque, se la contraddizione in termini della “guerra come veicolo per la pace” sia la sola via percorribile.
Più ancora, viene da chiedersi se la scelta di alcuni paesi della NATO di foraggiare il conflitto fornendo armi sia, prima ancora che saggia, coerente con i propri principi costituzionali.
Il riferimento è, evidentemente, a noi: la nostra Costituzione all’articolo 11 afferma il principio fondamentale del ripudio della guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, impegnando l’Italia a costruire “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”.
Ciò dovrebbe significare abbandonare la via della scelta armata a favore di quella diplomatica. Diversamente, è inevitabile che si finisca per diventare complici del conflitto o, peggio ancora, sue parti, almeno nei fatti, quant’anche un’aperta dichiarazione di discesa in campo non vi sia stata, almeno finora.
In quest’ottica forse dovremmo allora guardare con preoccupazione alla circolare dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano - diffusa qualche giorno fa – che mette in stato di “allerta” le forze armate, disponendo addestramenti orientati al "warfighting", ossia a scenari di combattimento su campi di battaglia e verifiche sull’efficienza di mezzi cingolati, elicotteri e sistemi d’arma dell’artiglieria.
Come dire, insomma, che, in perfetta aderenza al motto latino, anche noi italiani nel mentre predichiamo la pace, ci stiamo forse preparando alla guerra.