L’Ocse, acronimo di “Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico”, è un organismo nato inizialmente per gestire il “Piano Marshall” americano, l’imponente pacchetto di aiuti concesso all’Europa all’indomani della Seconda guerra mondiale. Oggi, l’organizzazione, che ha sede a Parigi, si occupa di studi economici riferiti ai 38 Paesi membri, le maggiori economie industriali.
Per questo, ha un peso specifico notevole scoprire che l’Italia è l’unico Paese dell’Ocse in cui i salari reali – quelli al netto dell’inflazione - invece di crescere, sono calati. E questo, a fronte di un record dell’occupazione che si porta probabilmente appresso una nuova classe sociale di lavoratori precari e sottopagati.
“I salari reali crescono su base annua in gran parte dei Paesi, generalmente a causa del declino dell’inflazione – si legge nell’Employment Outlook 2024 dell’Ocse - tuttavia, sono ancora al di sotto dei loro livelli del 2019 in molti Paesi. Con i salari che recuperano parte del terreno perduto, gli utili aziendali stanno iniziando a compensare alcuni degli aumenti del costo del lavoro. In molti Paesi c’è ancora spazio, perché i profitti stanno assorbendo ulteriori aumenti dei salari, specialmente in considerazione del fatto che non ci sono segni di una spirale prezzi-salari”.
Esistono diversi modi per misurare gli stipendi, ma il risultato non cambia: sono troppo bassi per garantire ai giovani un progetto di vita, e l’effetto a lungo rilascio del fenomeno rischia di fare perdere competitività all’Italia e di penalizzare ancor di più il potere d’acquisto del ceto medio, la spina dorsale dell’economia.
Un problema ormai epocale: nel maggio di quest’anno, il rapporto sulla convergenza sociale della Commissione UE bacchettava l’Italia: “La crescita dei salari nominali non è stata sufficiente a colmare la perdita di potere d'acquisto causata dal recente picco di inflazione collegato alla crisi energetica generato dall’invasione russa in Ucraina. E i salari italiani sono strutturalmente bassi: tra il 2013 e il 2022, la crescita dei salari nominali per occupato è stata del 12%, la metà della crescita europea, pari al 23%”.
Ad aprire una finestra panoramica sul fenomeno si è aggiunto “Dinamica dei redditi, recenti squilibri nell’industria italiana”, uno studio realizzato da Stefano Bellomo, Giuseppe Croce, Giulio Di Gravio, Riccardo Gallo e Mauro Gatti per l’Osservatorio delle Imprese dell’Università La Sapienza di Roma, in cui si analizza “La bassa remunerazione del lavoro nell’industria italiana: una debolezza di cui l’Italia soffre rispetto alla media europea, che potrà essere superata se in futuro saranno attuate politiche di innovazione come quelle indicate dal Rapporto Draghi, ma intanto dovrà essere attenuata in sede di rinnovo dei CCNL. I quasi 6 milioni di lavoratori dipendenti di aziende aderenti a Confindustria entro pochi mesi resteranno per tre quarti senza contratto: il 53% ne ha uno scaduto negli ultimi 12 mesi, il 10% ne ha uno scaduto da oltre due anni, il 13% ha un contratto che scadrà entro la fine di quest’anno”. Dalle conclusioni a cui arriva lo studio della Sapienza, emerge con chiarezza che le aziende hanno reinvestito nelle loro società il 20% degli utili netti, mentre tutto il resto è andato in gioiosi dividendi. Un po’ come la celebre frase attribuita a Maria Antonietta, dispotica regina di Francia: “Se il popolo non ha più pane, che mangi brioche”.
Se poi alla ricetta italiana si aggiungono le notevoli differenze di retribuzione fra uomini e donne e ancora quelle fra Nord e Sud, la frittata è completa. A fronte di stipendi più alti in regioni come Trentino Alto Adige, Lombardia, Liguria e Piemonte, esistono realtà come la Basilicata, dove gli stipendi sono così bassi da meritarsi l’ultimo posto in classifica.
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