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Il coraggio della colpa

Autore: Ester Annetta
Poco più di un mese fa, all’inizio di novembre, s’era fatto un gran parlare della laurea in medicina conseguita a soli 23 anni da Carlotta Rossignoli, una influencer da diverse migliaia di followers immediatamente criticata da quanti avevano messo in dubbio la bontà del suo percorso di studi, attribuendo la rapidità dei suoi traguardi ai privilegi procuratile dalla sua popolarità. Che ci fosse anche del merito (lemma divenuto ormai ricorrente da quando persino il nuovo Ministero dell’Istruzione l’ha aggiunto alla sua dicitura) nel suo successo dai più - specie gli altri studenti della sua stessa facoltà - era stato invece messo in dubbio.

Qualche giorno fa, ancora di un’altra laurea – di un altro merito - si è tanto parlato: quelli di Martina Cuomo, che ha discusso la tesi in scienze infermieristiche ed ostetriche all’Università degli Studi dell’Aquila durante il travaglio, partorendo poco dopo la sua bimba.

Poi, come a voler spezzare la sequenza - comunque positiva - delle due notizie, ne è giunta una terza: quella di una non-laurea, che di clamore ne ha suscitato altrettanto, ma per condurre stavolta l’attenzione sul “rovescio del merito” e sull’errore ricorrente che induce sovente ad identificare l’insuccesso e la difficoltà col fallimento.

Riccardo Faggin aveva 26 anni; si è suicidato il giorno prima della laurea in scienze infermieristiche. Una laurea che in realtà non esisteva.
Ma a saperlo era soltanto lui. A casa invece erano già pronti i festeggiamenti, con tanto di fiocchi rossi decorativi, ristorante prenotato, ed un viaggio-regalo già organizzato.

Così Riccardo, incapace di sopportare il peso delle tante bugie raccontate e soprattutto d’un fallimento che lo avrebbe denudato di fronte alle aspettative dei suoi genitori, non se l’è sentita di raddrizzare le spalle ed affrontarli. Ha preferito curvarle su un volante e mirare addosso ad un platano, affidandogli il compito di silenziare le voci che gli tormentavano la coscienza, di sottrarsi al dispiacere ed alla delusione che avrebbe procurato.

È di un’evidenza spaventosa il contrasto tra queste tre vicende, ma soprattutto tra ciò che rappresentano: il successo osannato (nonostante qualche polemica, nel primo caso) da una parte, la fatica ed il dolore dell’inadeguatezza dall’altro.

Inevitabilmente tornano le considerazioni su quella retorica dell’eccellenza – pretesa a volte ben oltre il semplice merito – che induce sempre più spesso la società, anche nelle sue cellule più piccole quali sono le famiglie, ad accentuare la pretesa di risultati performanti, di obiettivi competitivi, di successi ad ogni costo senza lasciar spazio – spesso - alle inclinazioni, alla libera espressione dello spirito, puntando anzi ad obiettivi che rappresentano una gratifica più per chi può ostentarli (che siano istituzioni che si affidano a statistiche o più semplicemente madri e padri che proiettano sui figli i propri desideri) che non per chi sia stato “costretto” a raggiungerli.

Là fuori c’è spesso un mondo che promuove velocità, competizione, vittoria; un assillo costante che prospetta la disfatta dell’intera esistenza se non si seguono certi ritmi, se non si raggiungono certi obiettivi, se non si ottengono certi risultati. La difficoltà, l’inciampo, la caduta non sono consentiti: se non si mantiene il passo si resta indietro, si resta fuori.

Non c’è margine per le pause, il rallentamento, la resa: sono vissute come incapacità, mai come bivi davanti ai quali è lecito cambiare direzione o consentito mettersi in discussione. Neanche sono mai ammesse come necessità.

Ed è spesso colpa di qualcos’altro – la società, l’inefficienza delle istituzioni e la mancanza di sicurezze che prospettano – quando, di fronte a insuccessi che si fatica ad ammettere o accettare, serve sottrarsi a responsabilità più immediate, andando a cercarle molto più distante dall’albero da cui cadono.

Stavolta, però, ci sono i genitori di Riccardo, che con una lucidità ed una consapevolezza ammirevoli, abbandonano la consueta, comoda, traccia dell’irresponsabilità per denunciarsi apertamente, per ammettere coraggiosamente le loro mancanze, che – riescono a vederlo! – consistono nell’egoistica pretesa di ottenere la propria soddisfazione attraverso i risultati del loro figlio.

“Lo vedevamo un po’ fermo. Lo riprendevamo perché si muovesse con questa benedetta laurea. Forse, però, l’abbiamo aggredito troppo” – ammette mamma Luisa - “Ci eravamo accorti che non si dava da fare ma adesso, di fronte a questo baratro, mi chiedo: quanto ha sofferto mio figlio? Lui non voleva deludere noi. Se solo ce lo avesse detto, avremmo provato ad aiutarlo. Non l’avremmo punito. Forse avremmo litigato, ma poi saremmo andati avanti dandogli una pacca sulla spalla”.

Le fa eco papà Stefano, che confessa a sua volta: “Riccardo si è sentito in trappola io, in questi 26 anni, non sono riuscito a trasmettergli la consapevolezza che, in realtà, non era solo, che mamma e papà potevano comprenderlo e sostenerlo nell’affrontare le difficoltà che la vita gli avrebbe messo davanti, fallimenti compresi. La responsabilità me la sento addosso. Mi rimprovero di non aver saputo leggere i segnali, di non avergli insegnato a essere più forte, almeno ad avere quella forza che serve per chiedere aiuto. Provo vergogna come genitore”.

Eccolo il più potente dei “j’accuse”: l’accusa a se stessi, la capacità di ammettere un’apparenza dietro cui si celano distanze e universi diametralmente opposti a quelli che un padre ed una madre si illudono di conoscere quando si ritengono alleati e complici dei propri figli.

Ci sono generazioni intere di genitori che vorrebbero riscattare le proprie frustrazioni attraverso il successo dei propri figli, sottoponendoli così a pressioni di cui il più delle volte neppure sono consapevoli e che invece procedono inesorabilmente nel loro lento processo di erosione dell’autostima dei figli stessi. Sono genitori vittime essi per primi del terrore del limite e dell’insuccesso, incapaci perciò di insegnare che anche questi sono aspetti dell’esistenza, necessari a fortificare e non destinati a sopraffare.

Ma per fortuna ci sono anche i genitori come Luisa e Stefano, che non se la prendono con nessuno e sono anzi capaci di riconoscere i propri errori, gli inganni di cui essi stessi sono stati vittime. Un padre e una madre sufficientemente lucidi da mettere in guardia gli altri padri e madri sui rischi legati ai miraggi di una competizione costante, d’una pretesa continua, d’una aspettativa sostenuta, allertandoli a fermarsi un momento prima e a guardare i propri figli lì dove sono e non dove vorrebbero che fossero.

Con tutte le loro paure, la loro rabbia, i loro bisogni inconfessati. Umani e fragili.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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