L’aggiudicazione dell’Expo 2030 all’Arabia Saudita ha fatto storcere il naso a tanti e non per la sorpresa, tutt’altro. Si è infatti trattato di una vittoria scontata - si è detto – giacché la sfida riguardava un contendente contro cui non c’era partita.
Del resto parliamo di un Paese protagonista di investimenti esorbitanti e di progetti di sviluppo fantasmagorici; di una macchina inarrestabile che ha i petrodollari come combustibile, grazie ai quali i successi messi a segno proliferano e spaziano in ogni ambito. In quello sportivo l’evidenza è maggiore: dall’acquisto di calciatori superlativi, all’assegnazione dei Giochi invernali asiatici del 2029 (e forse anche dei Mondiali di calcio del 2034), a questa ricca monarchia pare essere tutto possibile.
Il tutto con il beneplacito e con l’ammirazione della comunità internazionale che, viceversa, sembra essere cieca di fronte alle tante violazioni di diritti umani provocate da azioni compiute da un regime che asseconda e vizia il principe di turno.
E sono infatti parse dubbie e stonate le dichiarazioni del ministro degli Esteri saudita che, appena ottenuta l’aggiudicazione, ha profetizzato “un’Expo costruita dal mondo per il mondo. Una realtà per realizzare le promesse di opportunità, inclusività, accessibilità e sostenibilità”. Parole che presuppongono unione e condivisione, e che dunque mal si adattano alla realtà di un Paese in cui, invece, la disuguaglianza sociale è ancora molto marcata; in cui la libertà d’espressione è ferocemente repressa; in cui si contrastano prepotentemente oppositori politici ed omosessuali mentre ci si autoassolve da crimini di guerra compiuti a danno di altre popolazioni (vedi lo Yemen); in cui la giustizia non è affatto incondizionata e la pena di morte falcia vite spietatamente e senza appello; in cui le donne sono declassate e sottomesse agli uomini.
E tuttavia non è qui che finisce, giacché un’altra polemica era già in atto prima che l’Arabia Saudita si aggiudicasse l’Expo.
Il bersaglio stavolta erano gli Emirati Arabi e la loro pretesa di ospitare la 28esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28), che è iniziata lo scorso 30 novembre e andrà avanti fino al prossimo 12 dicembre.
Ancora una volta la contraddizione è parsa evidente: la Conferenza ha l’obiettivo di favorire un confronto tra i governi del mondo finalizzato a concordare politiche che possano contenere il riscaldamento globale e a formulare strategie comuni per gestire le conseguenze dei cambiamenti climatici. L’urgenza – come previsto dagli Accordi di Parigi - è di mantenere l'innalzamento delle temperature globali sotto 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali entro la fine del secolo, poiché tale soglia è considerata l'ultima utile per evitare conseguenze estreme per la popolazione mondiale.
Che la COP28 dunque si svolga a Dubai, uno dei luoghi meno ecocostenibili al mondo, che la sua organizzazione sia affidata ad uno dei Paesi maggiori produttori di combustibili fossili della Terra e che la sua presidenza sia affidata Sultan Ahmed Al-Jaber, Ceo di Adnoc, la compagnia petrolifera nazionale di Abui Dhabi, sembra proprio un eclatante paradosso.
Ho letto un’efficace similitudine che paragona questa Cop28 al famoso discorso sulla pace del film “Il Grande Dittatore” ammettendo che a farlo sia Hitler in persona piuttosto che Chaplin travestito.
Allora non c’è in fondo molto da sorprendersi se proprio Al-Jaber abbia dichiarato che “non esiste alcuna evidenza scientifica affidabile che affermi la necessità dell’eliminazione dei combustibili fossili per limitare il riscaldamento globale entro 1,5 gradi” per salvare il Pianeta, e che non c’è una strada per eliminare i combustibili fossili che consenta uno sviluppo sostenibile, “a meno di non volere riportare il mondo nelle caverne”.
Com’era prevedibile, il sultano ha respinto le accuse di negazionismo climatico che prontamente gli sono state rivolte dopo tali dichiarazioni, sostenendo di essere stato frainteso e ha sciorinato lauree ed esperienza a sostegno della sua capacità di saper combinare scienza e business, affermando di “rispettare le raccomandazioni della scienza sul cambiamento climatico” e di essere sorpreso “dai tentativi ripetuti di minare il lavoro della presidenza della Cop 28”.
Per citare un efficace proverbio partenopeo, verrebbe da dire: “chi per questi mari va, questi pesci piglia”. Vale per il “malcapitato” sultano, ma ancor prima vale per quanti hanno appoggiato una scelta di luoghi e persone poco compatibile con gli intenti da sostenere.
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