Mi imbatto in tre notizie a pochissimi giorni di distanza l’una dall’altra.
Nell’immediato non le collego tra loro. Sembrano essere distinte ed autonome, benché gravitino tutte attorno allo stesso contesto.
Le prime due sono autentiche tragedie, di quelle che coinvolgono specifiche persone, col loro contorno di familiari e amici rimasti a logorarsi con i perché senza risposta; l’altra ha invece una valenza più istituzionale (almeno nella forma) ed una portata più generale, che tuttavia (nella sostanza) finiscono anch’esse per avere ricadute sui singoli.
La prima:
Valeria Fioravanti è una ventisettenne romana, mamma di una bimba di poco più di un anno. Quando il giorno di Natale si reca al Campus Bio-medico per rimuovere un ascesso che le si è formato sotto l’ascella, non sa ancora che quel che di solito è un banale e veloce intervento per lei significherà altro. L’infezione della ferita che riscontra un paio di giorni dopo cela qualcosa di più insidioso. Ma ci vogliono altre tre puntate nel girone d’inferno di altrettanti pronto soccorso della capitale prima che qualcuno – una dottoressa in turno di notte – giunga alla diagnosi corretta: quei dolori alla testa e al collo, tanto lancinanti da farla contorcere, non sono affatto cefalea né le conseguenze di una protusione alla colonna, come le avevano detto gli altri medici. Valeria ha contratto una meningite batterica, probabilmente proprio in occasione di quel banale intervento. Ed è ormai troppo tardi per salvarla.
Valeria muore, tra l’incredulità e la disperazione dei suoi genitori, che da uno dei precedenti nosocomi consultati erano stati respinti in malo modo: “Sua figlia si lamenta in modo esagerato”, avrebbero detto, minacciando persino di chiamare i carabinieri davanti alla loro insistenza nel volere un controllo più approfondito.
La seconda:
una giovane donna è diventata mamma da soli tre giorni. Il travaglio è stato lunghissimo e da allora non è ancora riuscita a recuperare le forze, tanto più che nelle ultime notti non ha chiuso occhio. Sta sperimentando quella pratica - ormai tanto in voga nei reparti maternità dei nostri ospedali – definita, con uno dei consueti anglicismi, “rooming in”, ossia tenere con sé il bimbo appena nato, senza soluzione di continuità, sin dal primo vagito, mai passando per la “tregua” del nido che - per un fisico ed una mente sfiniti e provati come possono essere quelli di una donna che ha appena partorito e si trova alla prima esperienza come mamma – rappresenta invece un sollievo necessario. La donna proprio non ce la fa, ha bisogno di riposare, ed è sola, perché in una fase che è ancora di “cautela Covid”, nessuno – nemmeno sua madre – può restarle accanto e darle sostegno fisico e morale. Chiede che il bimbo le venga portato via per un po’, affidato alle cure delle infermiere e puericultrici del nido, giusto quel tanto che basti a ritemprarla. Ma no, non si può. Finisce così che, mentre allatta il figlio distesa a letto, cede e si addormenta. E lo soffoca col suo corpo.
La terza:
c’è una norma che - come spesso accade – esiste già da tempo ma è rimasta quiescente in attesa di un decreto attuativo deputato ad avviarne la concreta applicazione. Ma quando quel decreto arriva, innesca un meccanismo che, lungi dal rivelarsi il rimedio che voleva essere nelle intenzioni del legislatore, genera una serie di effetti collaterali deflagranti.
Per spiegarlo serve recuperarne il precedente: il D.L. 98/2011 (art. 17) aveva stabilito che la spesa dei dispositivi medici sostenuta dal SSN dovesse essere fissata entro tetti stabiliti dai decreti ministeriali di anno in anno, aggiungendo altresì che in caso di sforamento degli stessi, il conseguente ripianamento avrebbero dovuto essere a carico delle regioni che avessero contribuito a determinarlo. Senonché, il successivo D.L. 78/2015 (art. 9-ter) aveva aggiunto un’ulteriore previsione: una parte dello sforamento derivato dall’acquisto dei dispositivi medici sarebbe stato posto a carico delle aziende loro fornitrici, introducendo così il cosiddetto “payback”, altro anglicismo che serve a rendere più raffinato linguisticamente il più ruvido termine “rimborso”. Secondo tale norma: “ciascuna azienda fornitrice concorre alle predette quote di ripiano in misura pari all’incidenza percentuale del proprio fatturato sul totale della spesa per l’acquisito di dispositivi medici a carico del Servizio sanitario regionale”; e le soglie percentuali poste a carico delle aziende fornitrici erano state determinate nel 40% per l’anno 2015, nel 45% per il 2016 e nel 50% dal 2017 in poi.
La previsione è rimasta in letargo finora, dopodichè, col D.L. Aiuti bis ne è stata avviata l’attuazione. Le proteste e i timori sono stati immediati, stante l’imminente termine del 31 gennaio previsto per il recupero dei rimborsi (fortunatamente prorogato in extremis al 30aprile) e il non infondato pericolo che molte aziende, costrette ora a sostenerne la a volte eccessiva esosità, si avviino al tracollo.
Ma non è questa la sola possibile paura: di fronte alla “minaccia” d’un rimborso indeterminabile a priori (giacché è pratica ricorrente che si indicano gare per forniture la cui somma dei valori aggiudicati supera il fondo sanitario regionale a disposizione) molte aziende potrebbero decidere di astenersi dal parteciparvi, col risultato che negli ospedali potrebbero drasticamente ridursi le disponibilità di garze, disinfettanti, teli operatori e quant’altro. A danno dell’utenza.
C’è qualcosa che rende evidente la comunanza tra queste tre notizie, ora che sono messe in fila, una di seguito all’altra: un “denominatore” diremmo, come tale posto “sotto”, in fondo, ad ognuna di esse, ma determinante.
C’è, sì, quella che si potrebbe definire la “mala-solitudine”, una miscela micidiale di malasanità e solitudine che troppo frequentemente si scorge tra le corsie d’ospedale e nei loro uffici, dove tra attrezzature talvolta inadeguate (o, paradossalmente, ancora impacchettate e mai utilizzate), forniture insufficienti, tempi d’attesa biblici per le prestazioni e pazienti dimenticati su lettighe addossate alle pareti dei corridoi, la tanto acclamata “prevenzione” che andrebbe privilegiata rispetto alla “cura” diventa utopia.
Ma non è solo questo. L’evidenza maggiore e più ricorrente è l’adozione di una gestione irrimediabilmente basata sulla deresponsabilizzazione, sul continuo “scaricare” su altro o altre mancanze e inefficienze che andrebbero invece affrontate una volta per tutte. E con fondi adeguati, franchi da tagli e riduzioni.
Le strutture che per prime hanno visitato Valeria hanno sentenziato che fosse esagerato il male che riferiva, scaricando perciò su una sua presunta ipocondria qualcosa su cui invece avrebbero dovuto meglio indagare. A riprova che è divenuta ormai rara non solo la pratica dell’auscultare – oggi non più affidata ad un fonendoscopio ma a sofisticati e complessi apparecchi elettronici - ma anche quella dell’ascoltare;
il vanesio “rooming in”, che viene pubblicizzato come modalità efficace per favorire la serenità del neonato e l’instaurarsi di una sintonia immediata madre-figlio, fa sorgere il sospetto che forse rappresenti un elegante espediente per contrarre il personale e ridurre i costi del nido, rovesciandosi così addosso a madri ancora inesperte compiti nell’immediato troppo gravosi, senza che nemmeno sia fornito un adeguato supporto psicologico, indispensabile per gestire la depressione post-partum e lo sconvolgimento che un neonato porta nella vita di una donna;
il “paiback”, infine, ha tanto l’aria di essere una beffa, per scaricare sulle aziende fornitrici una parte dei costi sanitari che spetterebbe invece allo Stato erogare al SSN per curare i cittadini.
Ecco, il nesso l’ho colto. Ciò che ancora fatico a individuare è la possibile soluzione.