Oggi è 25 novembre “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne” e la conta delle donne morte per mano di uomini, mariti, ex fidanzati, ex compagni ha già superato il numero simbolico di 100.
L’ultima è Giulia. Sabato 18 novembre siamo rimasti tutti sconvolti dalla tragica notizia del ritrovamento del cadavere di Giulia Cecchettin, abbiamo sperato che non fosse come tutte immaginavamo, ma le speranze sono finite. Domenica è stato fermato Filippo e no non siamo sollevate, perché Giulia non tornerà a casa e Filippo non pagherà mai una pena abbastanza grande, non soffrirà la pena di un padre, di una sorella che inconsapevoli del destino che l’attendeva hanno lasciato che Giulia uscisse di casa. Una ragazza che è uscita di casa con il cuore felice perché dopo tre giorni si sarebbe dovuta laureare inconscia di incontrare un bravo ragazzo assassino.
L’intenzione era quella di scrivere un articolo su gender gap e violenza economica, ma purtroppo, era inevitabile non dedicare, ancora una volta, una particolare attenzione al femminicidio.
Che cos’è la violenza economica? Si tratta di una sottile forma di violenza che, a differenza della violenza fisica, non lascia segni sul corpo ma sulla psiche e, per questo motivo, è più difficile da riconoscere.
In quali stati sociali si manifesta? In tutti. La violenza economica è trasversale, infatti, sarebbe errato pensare che ne siano vittime solo le donne in condizioni economiche disagiate.
Le origini di questa forma di violenza sono da ricercare nella struttura della società patriarcale, e in particolare in una forma di sessismo cd. “benevolo”, che si potrebbe chiamare “paternalismo”.
Quante volte è successo? Si diventa Mamma e, automaticamente, la cura della prole diventa priorità, si fanno scelte penalizzanti, ci si isola e le necessità dei figli sovrastano le proprie. Il carico mentale e il senso di responsabilità di una Donna che diventa Mamma sono smisuratamente maggiori rispetto a quelli di un Uomo che diventa Padre.
“La mamma è sempre la mamma” … “di mamma ce n’è una sola”, sono solo alcune delle frasi e stereotipi che influenzano ancora oggi la società in cui viviamo.
La rinuncia all’avanzamento della carriera, la richiesta di un part-time o, addirittura, la scelta di abbandonare il proprio posto di lavoro sono spesso incentivati da questi stereotipi. In questo modo si crea il terreno fertile su cui la violenza economica cresce avvelenando famiglie e società.
È questa l’equazione semplice che Azzurra Rinaldi – Professoressa ordinaria di Economia Politica all’Università “La Sapienza” di Roma – spiega nel suo libro “Le signore non parlano di soldi” – Fabbri editore. Abbattere il Gender Gap e gli stereotipi è il primo passo per combattere la violenza di genere. Contestare e contrastare la cultura patriarcale, di cui ancora oggi è intriso il mondo occidentale è il secondo.
In linea generale, nel testo appena citato, si parte dall’assioma che parlare di soldi per le signore non sta bene, perché si rivelerebbe una natura venale ambiziosa della donna che - per convinzione comune nella nostra società - non è ben visto.
Il tema affrontato è quello del “lavoro di cura non retribuito” svolto maggiormente dalle donne all’interno delle famiglie verso tutti: figli, mariti, genitori.
Un lavoro, quello della cura, che sottrae tempo ed energia che, inevitabilmente, nella maggior parte dei casi comporta la rinuncia al proprio posto di lavoro per il bene di tutti. Ma perché? Uno dei motivi più svariati è che la donna guadagna meno dell’uomo e, per tale ragione, è più plausibile e “corretto” rinunciare allo stipendio più basso che a quello più alto.
È qui che nasce la violenza economica, dalla mancanza di indipendenza economica, o dalla mancanza di educazione finanziaria.
Il “controllo” è un fattore base dei meccanismi di violenza maschile. Nel caso della violenza economica il controllo si esercita sui soldi guadagnati ma anche sui quelli spesi. In questo caso, si parla di abusi veri e propri, non dell’esperienza (purtroppo) comune di rimanere a casa dopo la nascita di un figlio.
Quando l’abusante impedisce alla donna di accedere al conto corrente, limita la libertà di movimento, fa in modo che gli assets economici della famiglia siano sconosciuti alla donna e detiene il pieno potere di disporne. Secondo il The Domestic Abuse Report dell’Organizzazione britannica Women’s Aid, le conseguenze dell’abuso economico sono devastanti. Il 71% delle vittime ha dovuto fare a meno anche dei beni essenziali, il 41% ha dovuto utilizzare il denaro destinato ai figli (accumulato per i compleanni) per acquistare il necessario per la sopravvivenza, il 61% si è ritrovato con dei debiti pendenti, il 37% ha avuto un rating negativo da parte di istituti di credito.
E in Italia come siamo messi? Non benissimo, basti pensare che una donna su tre, non possiede un conto corrente personale. Non esistono dei dati in Italia sulla violenza economica, ma l’ISTAT e l’Associazione Di.Re. (donne in Rete) pubblicano annualmente un report con i dati raccolti nei centri antiviolenza. Tra le donne che chiedono aiuto ai centri antiviolenza, il 78% dichiara di aver subito violenza psicologica, il 58% è stata vittima di violenza fisica e il 32% di violenza economica, l’età delle donne che si rivolgono a questi centri per il 46% è compresa tra i 30 e i 49 (le più giovani quindi restano fuori, forse per la presenza di figli ancora piccoli). L’assoluta maggioranza delle vittime (il 74%) è di nazionalità italiana.
È attraverso il processo di empowerment femminile che la spirale della violenza economica deve fermarsi. L’obiettivo deve essere quello di arricchirsi intellettualmente, avere il tempo di studiare, di fare un corso di aggiornamento avanzando e costruendo passo dopo passo la carriera lavorativa.
Quanto è difficile oggi? È difficile sia avendo una famiglia che non, e per tutti questi motivi è importante conoscere gli strumenti che le donne hanno a disposizione per diminuire sempre più questa posizione di minoranza.
Si parte dall’educazione finanziaria, economica e fiscale. La conoscenza è uno dei punti focali per non esser tagliate fuori dalle scelte economiche che – nelle famiglie patriarcali – è ancora l’uomo a sostenere. È inutile dire che una rivoluzione così deve esser sostenuta anche dal Governo che con nuove politiche sociali deve agevolare il percorso di crescita ed emancipazione.
La violenza economica è solo una faccia della violenza di genere cui, purtroppo, ogni giorno si assiste. Le violenze di genere con tutte le sue declinazioni, sono figlie del patriarcato, del gender gap, del modo in cui educhiamo i figli maschi e le figlie femmine, del presupposto che gli uomini sono al di sopra e che tutto gli è consentito. Nessun uomo è innocente se non fa nulla per fermare tutto questo.
Ciò che si spera è che tutto questo un giorno possa finire, senza aver paura che le figlie che stiamo crescendo un giorno possano essere uccise da qualcuno che si è sempre presentato come un “bravo ragazzo”. Le famiglie non possono e non devono essere distrutte da tutto questo.