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Un’altra Giulia

Autore: Ester Annetta
Il caso di Giulia Tramontano sembrava averle scosse una volta per tutte le coscienze.

L’abominevole assassinio di una giovane donna e del bambino che portava in grembo, morto asfissiato prima ancora d’aver mai respirato, aveva sollevato un’onda di sconcerto e di condanna generale nei confronti di un omicida che aveva agito con meticolosa premeditazione, tradito infine dalla difficoltà di interpretare il personaggio ideato per la sua macabra sceneggiatura.

Nessuna pietà per un crimine così scellerato, nessuna attenuante per il suo autore.

E, per una volta, lo stesso universo maschile aveva condannato senza sconti quell’insana violenza, compatto nel sostenere la necessità di fortificare le difese contro un crimine che ormai è ben lontano dai numeri della sporadicità.

Eppure, passata l’onda d’indignazione del momento, scemate le varie manifestazioni, i cortei, le fiaccolate, le ospitate televisive di esperti svisceratori delle tematiche socio-culturali e psicologiche collocate a fondamento del “fenomeno femminicidio”, l’allerta e l’attenzione sono scese alla soglia consueta del “ci sarebbe tanto da fare”, lasciando il posto a propositi seguiti da azioni rantolanti come un motore in panne.
Fino alla volta successiva. Non l’unica – sia chiaro - giacché, nel mentre, altre donne (tre, nel solo mese di ottobre) sono morte per mano dei loro compagni/mariti: Concetta Marruocco, Annalisa D’Auria, Etleva Bodi. Ma le loro vicende hanno destato reazioni tiepide (forse perché troppo adulte le prime due e straniera l’altra?), scivolate immediatamente in un’ordinarietà divenuta a sua volta allarmante.

È stato infatti necessario che la vittima fosse un’altra ragazza poco più che ventenne, un’altra giovane donna che stava affacciandosi su un nuovo futuro, un’altra Giulia. Solo allora l’attenzione si è ridestata.

Si è sperato che andasse diversamente, si è desiderato un lieto fine. Ma era solo una questione di tempo e di attesa: il finale era già dannatamente scontato.

Giulia non sarebbe tornata, non avrebbe discusso la sua tesi di laurea, non avrebbe festeggiato il proprio traguardo con i suoi cari, dedicandolo, tra tutti, a chi non c’era più.

Filippo glielo ha impedito. Ha reciso i fili del suo destino, sostituendosi, con un estremo atto di egoismo, prepotenza, superbia, al corso delle cose.

Hybris avrebbero chiamato i greci questo suo orgoglio, ma non nel significato che il termine ha poi assunto nell’epica, di sfida verso gli dei; ma quello originario, di atteggiamento contrario all’etica: un’azione delittuosa o un’offesa compiuta al solo scopo di umiliare, di mostrare la propria superiorità alla vittima.

I tribunali mediatici hanno condannato subito Filippo, marchiandolo come l’ennesimo esemplare di figlio di una cultura patriarcale che ancora reclama la superiorità dell’uomo sulla donna, la pretesa di sottometterla, la rivendicazione di un dominio che si traduce in controllo, sopraffazione, violenza. Si è puntato il dito contro retaggi che tutt’ora resistono alla radicale estirpazione pretesa dai tempi nuovi; si è accusato il digiuno emotivo che affligge le moderne generazioni; sono state colpevolizzate le famiglie e le scuole per l’incapacità di offrire correttivi alle informazioni malevole della rete e ai cattivi modelli social.

C’è, indubbiamente, una conseguenzialità con ciascuna di queste ipotizzate cause. Ma quando un delitto di tale efferatezza viene compiuto da un ragazzo di vent’anni, è forse troppo riduttivo individuarne la causa prima o esclusiva in una motivazione ideologica, di connotazione maschilista o patriarcale.

A vent’anni sono altri i ‘demoni’ che influenzano le azioni, variamente sparsi in un contesto talmente bombardato da stimoli e richieste contrastanti che spesso risulta difficile distinguere tra realtà virtuale e vita reale. Il risultato è quello di una gioventù terribilmente fragile e sola.

Può anche sembrare un mostro Filippo, ma prima ancora, questo è: un ragazzo fragile, insicuro, tanto bisognoso di punti di riferimento che appena ha creduto di averne trovato uno, ci si è aggrappato con tutte le sue forze. Quel punto era Giulia, con la sua solarità, con la sua bontà, con il suo coraggio che l’aveva guidata nell’incanalare il dolore della perdita di sua madre nel maggior impegno investito per giungere presto al traguardo dei suoi studi ed avviare i suoi progetti futuri. Tra i quali Filippo non era contemplato.

Immaginiamo allora quel ragazzo di cristallo che sente cedere il terreno su cui si poggia; immaginiamo la sua paura e la sua solitudine; immaginiamo la gelosia e l’invidia per quella ragazza che infine capisce non appartenerle, non essere cosa sua, che mostra più determinazione e sicurezza di quanta non ne abbia lui. Che vince su tutto.

È lì, allora, che scatta qualcosa: un desiderio di rivalsa, una vendetta, una necessità di affermare la propria capacità di autodeterminazione. Ma la misura si perde, sconfina oltre la realtà, facendogli perdere il senso delle cose. In bilico tra una realtà effettiva e una costruita nel delirio della sua immaginazione, Filippo non sa distinguerle più e dunque anche la violenza, la sua prefigurazione, il suo epilogo diventano parte di un disegno che si delinea nel cerchio della sua paura e delle sue ossessioni.

“E’ un bravo ragazzo, non farebbe male neanche a una mosca”.

Lo dicevano i genitori di Filippo, lo dicono, dei propri figli, tutti i genitori: è una formula necessaria, talvolta fondata, talvolta solo sperata. Perché la verità è che continuano a esserci sempre più famiglie cieche e distratte e sempre più figli fantasmi, entrambi fermi alla superficie delle cose: le prime, per una sempre più marcata incapacità di vedere oltre, di impegnarsi in una cura e in un’educazione autentiche capaci di contemplare anche tanti NO necessari, anziché assecondare indistintamente pretese e debolezze di figli aguzzini, nel terrore di perdere il buongiorno o il sorriso forzato che spesso è il solo Grazie ricevuto in cambio; gli altri, sempre più estranei dalla realtà tanto da sfuggirla o sostituirla con universi fittizi che non richiedono impegno di sentimento o umanità e che si nutrono solo di apparenza e gradimento.

Tutti i nostri figli sono potenziali mostri e tutte le nostre figlie sono loro potenziali vittime.

Ma smettiamola di illuderci che il rimedio può essere un’efficace educazione all’affettività ed alla parità di genere insegnata sui banchi di scuola; smettiamola di pretendere che spetti alla scuola un compito che le famiglie continuano a delegare. Sono esse per prime a dover essere educate. E, ancor prima, serve che osservino da vicino - e non dalla distanza ammessa dalle loro carriere e dai loro impegni – la vita dei loro figli, che imparino a saperli scrutare al di là della maschera con cui si presentano, che dialoghino con loro scardinando le resistenze; che demoliscano quelle realtà virtuali in cui si arroccano e restituiscano loro la percezione esatta del mondo, delle relazioni, della realtà.

Solo dopo avrà senso considerare tutte le altre variabili, parlare di derive maschiliste e patriarcali, smascherare egoismo e prepotenza.

Oltre il dito, c’è la luna.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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