30 luglio 2022

Il diritto di sbagliare

Autore: Ester Annetta
Per la tesina del suo esame di terza media, mia nipote ha scelto un tema davvero impegnativo: l’imperfezione.

Compiendo un’analisi puntuale ed incredibilmente matura per la sua età, è riuscita a mantenere il filo conduttore dell’argomento addentrandosi in tutte le discipline, ritrovandolo così nel colore dei capelli di Rossomalpelo, nell’impurità della razza immolata dall’Olocausto, nell’apartheid, nelle sfide paralimpiche come risposta ai limiti fisici, nella disabilità e nel discrimine che l’accompagna.

Il tutto per concludere che imperfezione e diversità mai e poi mai vanno considerati come sinonimo di diversità.

Più che l’originalità dell’argomento, mi ha stupito che a sceglierlo sia stata una ragazzina di tredici anni appena che, secondo gli attuali schemi sociali (e social), rientrerebbe tra le categorie maggiormente abbindolate dal mito della perfezione, affascinate da modelli di bellezza inarrivabili, votate al culto dell’apparenza e incalzate dall’impellenza di dover primeggiare ad ogni costo.

Mi è sembrato un significativo atto di maturità e di presa di coscienza dell’illusorietà di certi paradigmi e mi ha indotto a riflettere su come, di questi tempi, un’ansia da prestazione universale che ci vorrebbe tutti pronti, capaci ed impeccabili abbia finito per privarci della capacità di accettare le nostre imperfezioni e del correlato, sacrosanto, diritto di perdere, sbagliare, fallire.

Ce lo insegnano a scuola sin da piccoli - è vero - con la penna rossa che li sottolinea e le insufficienze appuntate su un registro, che gli errori sono una macchia e vanno evitati.

Ce lo continuano a ripetere crescendo che cadere, cedere, crollare sono sinonimi di debolezza, una vergogna quasi come la povertà.
Consolidiamo da adulti questa idea, cedendo all’insana competizione generata dal confronto con “altri” che sono “più” o “meglio” di noi o all’ambizione che ci impone traguardi che non si possono fallire.

I modelli cui ci parametriamo più che incentivi sembrano sfide, asticelle collocate sempre più in alto in una corsa a ostacoli che non ammette inciampi e che rende le “competenze” il criterio discriminante dell’eccellenza.

Su tutto, domina poi l’ansia di dover mantenere fermo il traguardo una volta conquistato, sempre allerta a che altri non ci “facciano le scarpe” o dubbiosi che l’ammirazione da cui ci si ritrova circondati dipenda più dalla posizione raggiunta e dal relativo conto in banca che non dall’apprezzamento delle proprie capacità.

Il piacere della conquista dura allora giusto il tempo d’un soffio, avvelenato subito dopo dall’amaro delle paranoie, dall’insicurezza e dall’allestimento d’una difesa che non lascia respirare.

Quant’è invece utile sbagliare! Quanto si impara e quanto ci si migliora sulla scorta dei propri fallimenti! Quant’è ricostituente di tanto in tanto cedere, crollare, ammettere un sano “non ce la faccio”.

Anche questo ci si insegna da sempre: che sbagliando si impara.

Tendiamo però a scordarcene, perché troppo assillante è la richiesta di perfezione ed infallibilità che giunge da un mondo che confonde sempre più il virtuale col reale, la naturalezza con l’artificio, l’impegno con la fortuna.

Dovremmo allora riappropriarci dei “benefici” dell’errore; della sua carica creativa che affida alla divergenza piuttosto che alla logica lineare la ricerca di soluzioni alternative; delle opportunità generate dalla sconfitta, occasione per ripensarci e per ritrovarci, fuori dalla palestra della competizione e liberi dall’ossessione del successo.

Dovremmo riconoscere il potere terapeutico della sconfitta, che ridimensiona il delirio d’onnipotenza restituendoci la potente arma dell’umiltà e che insegna che “perdere” ci rende più forti e meno vulnerabili di quanto possa fare “vincere”.

Abbiamo diritto di fallire, ogni tanto; di fermarci, di dire “no” o “basta”, di battere in ritirata, di deludere le aspettative, di perdere qualche treno.

Ci serve per fortificarci; per imparare come ci si rialza dopo esser caduti, perché l’equilibrio sul podio più alto non è mai stabile né definitivo; per ammettere che non c’è alcun imperativo che imponga di dover essere sempre all’altezza.

L’esempio che dobbiamo seguire - e che a nostra volta dobbiamo passare ai nostri figli - è piuttosto quello della tenacia e della volontà.

Dobbiamo avere ben presente - ed indicare - la probabilità di una non riuscita, accompagnandola con la convinzione che essa non implica vergogna, scandalo o perdita di dignità, né significa incapacità o inadeguatezza.

Dobbiamo abbattere il mito dei prefissi “iper- stra- super” di cui perlopiù si abbigliano vincitori falsi e disonesti, opportunisti e prevaricatori senza meriti, illusionisti che prestidigitano col futuro degli altri.

Serve invece prendere le distanze dal voler apparire per riappropriarci del nostro spazio reale e della nostra autentica dimensione umana, accettandone tutte le sue piccole o grandi… imperfezioni.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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