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evasione carcere

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Il figlio dell'oligarca

Autore: Ester Annetta
A ottobre scorso, Artem Uss, imprenditore russo di 40 anni, era stato fermato a Milano Malpensa su mandato d’arresto internazionale dell’Autorità giudiziaria di New York.

Sul suo capo pendeva l’accusa di contrabbando di petrolio dal Venezuela verso Cina e Russia, con elusione delle sanzioni, e di frode bancaria. Per una strana dimenticanza, non gli veniva invece contestata anche l’accusa di contrabbando di tecnologie militari dagli Usa verso la Russia, né quella di riciclaggio.

Ma è una modesta anomalia al cospetto delle altre che la vicenda avrebbe avuto in serbo.

Che non si trattasse di un arresto qualsiasi era stato subito chiaro: quasi più che i reati contestati, a pesare era la circostanza che Artem fosse figlio di Alexander Uss, governatore di Krasnoyarsk, nella Russia siberiana, nonché rappresentante politico degli oligarchi siberiani e – ça va sans dire – potente oligarca a sua volta.

Dunque una merce di scambio preziosa per gli Stati Uniti, che speravano così di ottenere, in corrispettivo della restituzione del rampollo russo a papà, la liberazione di un ex marine americano, condannato a Mosca a 16 anni di reclusione con l’accusa di spionaggio.

A tal fine serviva dunque che Artem fosse estradato negli Stati Uniti, ed in tale direzione si era perciò subito mosso il dipartimento di Giustizia americano che, in attesa che la Corte d’Appello di Milano desse il proprio via libera, si era pure premurato di scrivere al nostro Ministero della Giustizia, invitando le autorità italiane ad adottare “ogni misura possibile” per la custodia cautelare del prezioso prigioniero, affinché fosse scongiurato “l’altissimo rischio di fuga”.

Invece ad Artem erano stati concessi gli arresti domiciliari, in una condizione assolutamente “dorata”: con tutti i suoi telefoni, i suoi computer ed ogni altro strumento di comunicazione con l’esterno. Unica “cautela”, il braccialetto elettronico: l’imprenditore «è radicato in Italia e ha dimostrato di disporre di una abitazione a Basiglio, nel Milanese» c’era scritto nell’ordinanza della Corte d’Appello, che aveva perciò ritenuto che, in questa situazione familiare, «non è più necessario il mantenimento della misura più afflittiva del carcere».

Fatto sta che il 22 marzo, all’indomani della pronuncia dei giudici italiani a favore dell’estradizione, Artem – come un novello Spartaco – ha spezzato il braccialetto ed è fuggito via, riuscendo a raggiungere Mosca in men che non si dica.

La notizia della sua fuga – chissà perché – non è stata resa subito nota, ma è trapelata diversi giorni dopo, accompagnata da tanti interrogativi probabilmente destinati a restare orfani di risposte. Primo tra tutti, perché non sia stato dato credito all’allerta inviato dal dipartimento di Giustizia americano che, espressamente, aveva chiesto l’adozione d’una misura coercitiva per evitare ciò che è poi accaduto.

Il ministro della Giustizia ha ordinato un’ispezione per far luce sulla fuga di Artem;
la Corte d’appello di Milano ha allora subito precisato che non rientrava tra le sue competenze disporne la detenzione in carcere che, viceversa, avrebbe dovuto essere preventivamente disposta dalla Procura generale oppure su richiesta dello stesso ministero della Giustizia. Tale ultima ipotesi è del resto indicata nell’art. 714 cpc, secondo cui «in ogni tempo la persona della quale è domandata l’estradizione può essere sottoposta, a richiesta del ministro della Giustizia, a misure coercitive».

Ha avuto, insomma, inizio una strana girandola di accuse e responsabilità su cui ulteriore dubbio è stato gettato da una sibillina dichiarazione rilasciata da papà Alexander Uss, che, dopo aver accolto in casa il suo senz’altro prodigo figlio, ha dapprima ringraziato Vladmir Putin per aver contribuito al suo ritorno, aggiungendo inoltre: «Il nostro paese ha molti amici e persone oneste che lo sostengono. E che al momento giusto sono pronte ad aiutare. So di cosa parlo».

Combinando tra loro queste variopinte tessere, il mosaico che chiaramente ne risulta è, allora, che dev’esserci stato più di qualche non-casuale ‘elemento a favore’ – per non dire complicità - nella tessitura della fuga di Artem.

Si sarà trattato di un gioco di equilibri internazionali, dettato da convenienze reciproche o altre insondabili ragioni.

Ma, nel confronto con quant’altro accade nelle nostre carceri - dove le identità dei reclusi spesso contano poco ed ancor meno il loro valore, dove si muore di suicidi autentici o anche dubbi, dove l’irrigidimento e l’asprezza delle pene vengono talvolta mantenute più per compiacimento a logiche di politica che non di giustizia – la differenza appare squallidamente e vergognosamente evidente.
Ubi maior. Molto tristemente.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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