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Il senso della Pasqua

Autore: Ester Annetta
Ai tempi in cui frequentavo l’università da studentessa fuori sede, non era per me in discussione che Pasqua rientrasse tra le “feste comandate”, ossia quelle implicanti il mio ritorno a casa per trascorrerle in famiglia, a dispetto del detto “con chi vuoi” che per quella festa legittimerebbe l’eccezione.

I tempi però cambiano e, nonostante l’impegno che noi genitori profondiamo nel trasmettere valori e tradizioni ai nostri figli, prevale la loro tendenza all’indipendenza e al disconoscimento di “canoni” non percepiti come propri.

Perciò, quando qualche giorno fa ho chiesto ai miei ragazzi quali programmi avessero per Pasqua, mi sono sentita rispondere che per loro è un giorno come tanti altri.

Mi sono allora cimentata in una riflessione che, in minima misura, vuol essere una ricostruzione del senso storico e simbolico della Pasqua, da ricongiungere a quello che attualmente le si attribuisce.

Etimologicamente, Pasqua deriva dalla parola ebraica pesah, che significa “passare oltre“: accezione rinvenibile sia nella Pasqua ebraica, ove indica il passaggio dalla condizione di schiavitù - patita dagli ebrei sotto la dominazione egizia - alla libertà, sia in quella cristiana, che indica in passaggio dalla vita alla morte attraverso il sacrificio di Gesù.

È tuttavia da constatare che sono ormai pochi (pensando unicamente alla distinzione tra credenti e non credenti, dal momento che la Pasqua è nata come festività religiosa, a differenza del Natale che si è invece insediato su una preesistente ricorrenza pagana) a tenere in degna considerazione ciò che questa festa, con i suoi riti e le sue celebrazioni, vuole trasmettere.

Anch’essa ha anzitutto assunto più il senso di “vacanza” piuttosto che di “festa”, trasfondendo perciò nell’opposizione tra un tempo di lavoro e un tempo di riposo quella che vorrebbe invece contrapporre un tempo sacro ad un tempo profano.

Ancora oltre, è stata attratta – come altre - nel vortice delle pratiche consumistiche in cui ha trascinato anche i suoi simboli, a cominciare dall’uovo, che, come metafora della vita, la rappresenta per eccellenza. L’uovo infatti racchiude la vita, che al suo interno nasce, cresce e infine viene alla luce. È la forma in cui confluiscono i due emisferi di cielo e terra nell’unirsi tra loro e, nella simbologia cristiana, la pietra liscia che chiude il sepolcro di Cristo, oltre la quale la vita risorge.

L’usanza di bollire, decorare e regalare le uova pare tra l’altro sia nata dalla necessità pratica di impiegarle comunque (visto che le galline continuavano lo stesso a produrle) durante la quaresima, quando ne era proibito il consumo.

Poi sono arrivate quelle di cioccolato e, ancora dopo, quelle gioiello: nel tardo ottocento, su commissione dello zar Alessandro III, il gioielliere francese Peter Carl Fabergé creò un primo uovo in platino smaltato, contenente un tuorlo d'oro, che a sua volta celava una gallinella ricoperta d’oro con gli occhi di rubino e, infine, una corona imperiale. Da allora ne creò uno ogni anno, unico ed originale, continuando la tradizione anche sotto il successivo zar Nicola II.

Nel procedere del tempo, all’uovo è stato sempre più assegnato il ruolo di oggetto di consumo e di regalo (stavolta “vincolato”, rispetto ai regali “liberi” di Natale), andando a perdersi il senso del messaggio che voleva trasmettere e, con esso, quello della Pasqua stessa.

A pochi importa conoscere il perché la Pasqua si celebri; per i bambini è il giorno delle sorprese (spesso deludenti) racchiuse in gusci di cioccolato che il più delle volte nemmeno mangiano; per gli adulti è una delle tante tradizioni goderecce che si consumano a tavola tra colombe, conigli e agnelli – originariamente simboli anch’essi di resurrezione, di pace e di mitezza – che, quando non finiscono cotti al forno o grigliati, sono forme ridondanti di zucchero, canditi, crema, mandorle.

Mi si consenta, allora, di ricordarlo il senso perduto della Pasqua, a partire da quello teologico per giungere a quello più aderente al sentimento comune: Pasqua come simbolo di resurrezione di un uomo giusto, Signore e Dio, ucciso dai poteri, dagli interessi e dall’insensatezza; Pasqua come simbolo del trionfo della vita sulla morte di chi ha accettato di farsi torturare e crocifiggere per la salvezza dell’umanità iniqua e corrotta; Pasqua come simbolo d’amore, esempio - anzi - d’amore universale da cui discende quello particolare che ognuno dovrebbe essere in grado di conoscere e donare, come aveva ricordato uno dei nostri massimi poeti.

Era il giorno ch’al sol si scoloraro/per la pietà del suo factore i rai: è l’incipit di un sonetto del Canzoniere di Francesco Petrarca, il primo dei componimenti dedicati a Laura. Il giorno evocato (in cui il solo scolorisce i suoi raggi per compassione della morte del suo creatore) è il venerdì santo, giorno del compimento d’un supremo atto d’amore per l’umanità, e coincide con quello della nascita del sentimento del poeta per la sua amata: un amore minore, particolare, che si lega così al quello supremo ed assoluto.

Ecco allora ciò che va recuperato della Pasqua, il nostro senso dell’amore: quello individuale, che ci lega ad un nostro simile, destinatario delle nostre attenzioni e delle nostre promesse, e quello comune, che ci rende capaci di individuare i bisogni e le difficoltà del prossimo, di soccorrerlo ed accoglierlo indiscriminatamente, rendendo così possibile la resurrezione delle nostre coscienze.

Buona Pasqua a noi tutti.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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