Nel 2014, alla vigilia delle europee, il governo Renzi vara il bonus 80 euro che, diventando strutturale, è cresciuto fino a toccare i 100 euro, distribuendo nel tempo circa 10 miliardi a 10milioni di persone con reddito inferiore a 24mila euro. Dieci anni dopo, in uno scenario pressoché identico, il governo Meloni annuncia un bonus una tantum di altri 80 euro sulle tredicesime dei redditi fino a 15mila euro. In mezzo le riforme targate Conte e poi Draghi, che hanno “corretto” il bonus Renzi, diventato un ostacolo per i rinnovi contrattuali.
Una serie di tentativi di tagli alle tasse e benefici fiscali che, per quanto lodevoli almeno per l’intenzione, sono stati letteralmente rosicchiati dall’inflazione. A raccontarlo è uno studio realizzato dall’UPB (Ufficio Parlamentare di Bilancio), parte del più corposo rapporto che annualmente viene presentato alla Camera.
Quello che ha evidenziato il Rapporto dell’UPB è l’evoluzione della tassazione – in particolare dell’Irpef – nel corso di un decennio, calcoli che hanno concretizzato un aumento della pressione fiscale di 3 punti (dal 39,6 al 42,7%), ovvero un punto netto al di sopra della media UE. L’imputato numero uno è l’Irpef, causa dell’erosione progressiva della base imponibile che da una parte ha trascinato fuori dall’imposta redditi come la cedolare secca sugli affitti, l’esenzione per gli agricoltori e la flat tax per gli autonomi, mentre dall’altra ha depotenziato gli interventi per ridurre le aliquote sui redditi da lavoro dipendente.
“L’effetto negativo del drenaggio fiscale nei dieci anni considerati compensa l’effetto positivo determinato dalle modifiche normative - spiega nel rapporto la presidente dell’Upb Lilia Cavallari - se si tiene conto della perdita di potere di acquisto per effetto dell’inflazione, le aliquote medie risultano generalmente superiori a quelle che si pagavano nel 2014”.
Secondo l’analisi dell’UPB, le modifiche per i lavoratori dipendenti si sono concretizzate nel 3% in meno di prelievo, andati persi per via degli effetti del drenaggio fiscale, pari a circa 3,6%: se la matematica è tutto tranne che un’opinione, significa aver lasciato sul terreno un saldo sul reddito disponibile pari a -0,6 punti percentuali. Più contenuti gli effetti tangibili su pensionati e autonomi.
In pratica, spiega il rapporto, quest’anno, per i redditi compresi tra 10 e 30mila euro dei lavoratori dipendenti, la riduzione rispetto al 2014 si attesta tra 96 (15mila euro di reddito) e 351 euro (per 25mila euro). Al contrario, un lavoratore con 35mila euro di reddito, rispetto al 2014 può contare su un aumento di 85 euro per via della minore aliquota media.
Ad essere premiate sono le famiglie più numerose, visto che la variazione dei benefici cresce in base al numero di figli: chi ne ha più di tre, con l’introduzione dell’assegno unico si assicura 1.941 euro a fronte di chi si limita ad un figlio (840 euro). Questo sulla carta, perché nella realtà, considerando la perdita di potere d’acquisto, la riduzione dei benefici va da un minimo di 160 per le famiglie con più di tre figli e 328 per quelle con uno solo.
A margine della presentazione del Rapporto dell’UPB, il Ministro del Mef Giorgetti ha confermato il taglio del cuneo fiscale, considerato “Un impegno assolutamente inderogabile”, che non verrà finanziato in disavanzo: “I deficit sono quelli indicati nella Nadef e nel Def, e che intendiamo rispettare. La proroga della decontribuzione, al costo netto di 11 miliardi circa, rappresenta uno dei due pilastri insieme all’assicurazione che non ci saranno scostamenti di bilancio, soprattutto dopo l’annuncio della procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per deficit eccessivo.
In compenso, “Non appare plausibile che misure che vadano verso il ripristino di requisiti pensionistici meno stringenti possano autofinanziarsi nel breve-medio periodo senza pesare sui saldi di bilancio, sottraendo risorse ad altri istituti del sistema di welfare”, conclude l’UPB.