Per quanto possa pesare, la terribile fine del bracciante indiano morto nei giorni scorsi nelle campagne di Latina è soltanto uno sfortunato incidente di percorso di un’anomala normalità tutta italiana: il caporalato. Lo sfruttamento bieco di extracomunitari su cui il Governo ha promesso di agire con mano ferma per mettere fine ad un fenomeno che tutti conoscevano, ma serviva il morto per far scoppiare il bubbone. Da queste parti va così: quando arriva il sangue si alza lo sdegno unanime. Ma fino ad allora zitti e mosca, meno polvere c’è in giro e meglio è.
Un caso che, dopo il cordoglio d’ordinanza, ha riacceso con forza i riflettori sulla forma illegale di reclutamento della manodopera che c’era, c’è sempre stata e difficilmente scomparirà nel nulla.
Lo scorso marzo, riporta il quotidiano “La Stampa”, i Carabinieri di Piombino avevano aperto un’indagine su un traffico di pakistani e bengalesi che da un centro di accoglienza venivano adibiti alla racconta di olive nelle campagne grossetane, guadagnando tra i 3 ed i 9 euro per 10 ore di lavoro. Satnam Sigh, il bracciante morto dissanguato nell’agro Pontino, si spezzava la schiena a raccogliere ravanelli per 2 euro all’ora: paradossalmente era quasi fortunato.
Ma anche provando ad andare oltre queste forme di schiavitù moderna, sono tanti i settori dove le cose non vanno poi molto meglio di così. Gli stagionali ad esempio, un popolo di circa 650mila giovani che attende l’estate per guadagnare qualcosa ma difficilmente va oltre una media di 8.783 euro per 114 giorni di lavoro se maschi, che diventano 7.265 nel caso di donne e scendono ancora a 6.400 euro se si parla di persone al di sotto dei 35 anni.
Regole che valgono anche per il part-time, forma di contratto che secondo diverse inchieste è per il 57,9% dei casi non una richiesta del lavoratore ma imposta dal datore, che in questo modo trova “nell’orario ridotto, l’unico strumento improprio di conciliazione disponibile, data la carenza di servizi, dai nido alla non autosufficienza”, come sottolineava la Cgil in una campagna contro la precarietà. Per essere chiari: un lavoratore part-time guadagna in media 11.451 euro all’anno, a meno di non aggiungere la penalità di vivere nel sud, che significa portare a casa ancora meno.
E anche continuando a salire, lasciandosi il sommerso e le atipicità alle spalle, i cieli azzurri latitano: secondo un’analisi nazionale dell’ufficio economia della Cgil, 5,7 milioni di lavoratori dipendenti italiani campano (o ci provano) con 11mila euro lordi all’anno, che significano meno di 850 euro al mese, mentre e altri 2 milioni sfiorano appena i 17mila euro, ovvero 1.200 al mese.
Se poi i calcoli si estendono agli altri Paesi UE, il divario italiano si fa clamoroso: nel 2022, al netto di più ore lavorate, il salario medio italiano si aggirava su 31.500 euro annui contro i 45.500 della Germania e i 41.700 della Francia.
A certificarlo è arrivata qualche settimana fa la classifica Ocse sui salari, che alla voce Italia documentava un potere d’acquisto di gran lunga inferiore rispetto agli stipendi degli anni Novanta. Da queste parti, i salari hanno perso il 2,9% sfogliando i calendari dal 1990 al 2020. Ma colpo di scena, a fine 2022 una brusca frenata ha trascinato la percentuale al -7,5% a fronte di una media Ocse limitata al 2,2%.
I motivi? Secondo gli esperti è la solita tempesta perfetta che sulla nostra Penisola non manca quasi mai, questa volta nata dalla pessima combinazione del caro energia, che da solo ha inciso non poco sui bilanci delle famiglie, ma con l’aggiunta di un evidente mancato aumento degli stipendi. La crescita salariale italiana, specifica l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, dal 1991 ha registrato un timido 1,1% in più, scivolato via senza che nessuno se ne accorgesse.
Va da sé che il calo salariale è stato avvertito in misura molto più pesante dalle retribuzioni più basse, con una flessione del 10,3% compresa in una manciata di mesi, tra il primo trimestre 2022 e lo stesso periodo del 2023, e sempre a fronte di una media Ocse contenuta nel -3,5%. Comunque non l’hanno scampata neanche i salari medi (-7,5%) e quelli alti (-6%), che nella solita media europea sono rimasti contenuti a -3,8% nel primo caso e -4,8% nel secondo.
Dai dati che emergono dalla ricerca “Povere famiglie. L’impatto dell’inflazione sui redditi degli italiani”, voluta dall’Osservatorio nazionale dei redditi e delle famiglie in collaborazione con il Caf Acli e l’Iref, secondo cui il reddito familiare mensile ha dovuto fare i conti con perdita media di 240 euro dal 2019 al 2022, in pratica tra i 317 euro mensili delle famiglie bireddito e i 150 di quelle monoreddito.
Ma visto che a deprimersi c’è sempre tempo, spalmando i numeri sul potere d’acquisto del carrello della spesa di 90 euro concentrato solo sui beni primari alimentari, le famiglie bireddito hanno perso circa 8 carrelli all’anno (700 euro), seguiti da separati/divorziati con 6 carrelli, la stessa cifra di single/unioni di fatto. Per finire con i 4 carrelli persi per strada delle famiglie monoreddito e vedovi.
Secondo Tommaso Monacelli, ordinario di Macroeconomia all’università Bocconi di Milano, “I bassi salari sono la spia di un malessere profondo dell’economia che derivano da una crescita anemica della produttività totale dei fattori. I salari fermi sono la più grande ferita nel modello di specializzazione produttiva dell’Italia, basata sulle piccole e medie imprese. Con un impatto inevitabile anche sulla demografia. Con una forza lavoro anziana e poco istruita, per una scarsa percentuale di lavoratori con istruzione avanzata, ne risente anche la produttività. A ciò si aggiunga un mercato dei capitali poco dinamico e la ridotta dimensione delle imprese anche per sfuggire ai radar del fisco, generalmente poco aperte per questo all’innovazione tecnologica e dunque al valore aggiunto che ciò genera sulla produttività, retaggio anche di un capitalismo familiare affetto dal dogma del controllo”.