Le vittime di guerra non sono soltanto i soldati caduti sui campi di battaglia, né i civili uccisi per strada, nelle loro case o mentre tentano di fuggire dal tracimare d’un odio incontrollato che ne fa incolpevoli bersagli. Sono anche quelle che le statistiche non contano, le vittime indirette o involontarie, certamente, ma anche quelle che scelgono di esserlo, talvolta senza neppure appartenere alla terra, alla causa, alla guerra che si sta combattendo.
E sono quelle che scivolano via, dalle cronache e dalle coscienze, perché la loro morte non fa notizia, non ha la portata dirompente d’una strage o d’un genocidio, neppure quando è proprio contro questi drammi che intende assurgere a simbolo di protesta.
Aaron Bushnell questo voleva fare: manifestare in maniera inequivocabile e marcata il suo dissenso contro una guerra assurda, di cui non voleva essere in alcun modo complice, nemmeno in esecuzione di un ordine superiore.
Aveva 25 anni, Aaron, ed era un militare dell’aeronautica militare statunitense di stanza a San Antonio, in Texas.
La mattina del 25 febbraio scorso aveva scritto sulla sua pagina Facebook un ultimo post che così recitava: “Molti di noi amano chiedersi: ‘Cosa avrei fatto se fossi stato vivo durante la schiavitù? O durante le leggi Jim Crow degli stati del Sud? O l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio?’ La risposta è: quello che stai facendo. Proprio adesso”. Il post terminava con un link a uno streaming live sulla piattaforma Twitch, dove di lì a poco sarebbe stata ripresa la protesta che aveva in mente di mettere in atto.
Quindi, con indosso la sua mimetica, si è portato davanti ai cancelli dell’ambasciata israeliana di Washington, ha posato in terra il suo telefono, ha avviato la ripresa video e ha spiegato: “Il mio nome è Aaron Bushnell. Sono un membro in servizio attivo dell’aeronautica degli Stati Uniti e non sarò più complice del genocidio. Sto per intraprendere un atto di protesta estremo, ma rispetto a ciò che la gente ha vissuto in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto estremo. Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso che sarà normale”.
Poi si è cosparso il corpo di benzina e si è dato fuoco.
“Palestina libera” ha continuato a urlare, finché il dolore e le fiamme non l’hanno consumato.
Due addetti dell’ambasciata sono accorsi. L’uno reggeva un estintore, con cui tentava di spegnere le fiamme; l’altro, puntava invece una pistola contro la torcia umana che Aaron era intanto diventato, un gesto assurdo e disumano che nemmeno serve commentare.
Il ragazzo è stato quindi portato in ospedale, ma senza speranze, poche ore dopo è morto.
Non è certo nuovo il gesto di Aaron; il 1° dicembre 2023 una donna mai identificata, avvolta in una bandiera palestinese, si era data fuoco davanti al consolato israeliano ad Atlanta, in Georgia ancora una volta per protestare contro il genocidio in atto.
Ma, anche in altri tempi e in altri luoghi, simili atti di protesta non sono mancati: ci sono stati quelli dei monaci buddisti che negli anni sessanta si autoimmolavano a Saigon, anch’essi dandosi fuoco, per protestare contro la guerra statunitense in Vietnam; c’è stato Jan Palach, che nel 1969 compì lo stesso gesto quando le truppe russe entrarono in Cecoslovacchia bloccando la stagione di riforme avviata con la Primavera di Praga, annullando la libertà di stampa e limitando il diritto di riunione e di sciopero; c’è stato, ancora, nel 2010, Mohamed Bouazizi, il fruttivendolo tunisino che si diede fuoco per protestare contro la corruzione locale, innescando così una serie di altri fatti e azioni che sarebbero stati poi ricondotti all’unica etichetta di “Primavera araba”.
In tutti quei casi, però, si è trattato di gesti di individui che portavano avanti la causa del proprio paese e il pensiero della propria gente. Azioni “normali” – di martiri o eroi – comunque riconducibili a un’appartenenza.
Nel caso di Aaron, invece, è parso “anormale” che un individuo ponesse fine alla propria vita per una causa che non lo toccava direttamente. Perciò il suo gesto è scorso via rapidamente, poco considerato e, anzi, quasi declassato, in virtù del sospetto che si sia trattato dell’azione di un folle. Addirittura i maggiori giornali americani sono andati a rivangare la sua adolescenza, per assegnare al suo vissuto in una comunità cristiana isolata nel Massachusetts la responsabilità di un qualche fanatismo o d’una insana influenza.
Eppure, non c’è niente di più chiaro delle ultime parole pronunciate da Aaron, che, per ironia della sorte, porta il nome di un personaggio biblico - ebreo, considerato progenitore di tutti i sommi sacerdoti israeliti – e che significa “portatore di martiri”.
“Non sarò più complice di un genocidio. Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso che sarà la normalità.”
Che in altri termini vuol dire che se i governi e la politica accettano ciò che sta succedendo, lo stesso non è disposta a fare la gente comune, stanca di vittime, di massacri e di giochi di potere.