Ancora una manciata di giorni e il 17 febbraio prossimo, un sabato, scatterà in tutta Europa il “DSA” (Digital Services Act), il pacchetto di regole comunitarie per i servizi digitali con cui Bruxelles tenta di mettere mano e regolare lo sviluppo dell’economia digitale restando in un difficile equilibrio tra tutela degli utenti, difesa dei diritti, concorrenza e stimolo all’innovazione. Un’operazione resa ancora più complicata dall’ingombrante presenza delle “Big Tech”, le piattaforme con oltre 45milioni di utenti nella sola UE, che viste le loro dimensioni sono più a rischio. Il vero problema dei colossi del web è la mancanza di moderatori, e sono ancora meno quelli in grado di gestire e padroneggiare tutte le lingue parlate all’interno della UE.
Entro il 17 febbraio, tutti gli intermediari in rete (fornitori di cloud e hosting, motori di ricerca, e-commerce e servizi online), dovranno adeguarsi alle nuove norme che pretendono la massima trasparenza su algoritmi e pubblicità, lotta alla violenza online, a deepfake e fake news, protezione dei minori e segna anche la fine della possibilità di profilazione degli utenti. In pratica, i contenuti pubblicitari diventeranno ancora più evidenti, permettendo di distinguere la pubblicità dall’informazione, così come l’obbligo di indicare in modo chiaro il nominativo del venditore.
Evoluzione della direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico, il DSA sopprime alcuni articoli relativi ai servizi intermediari ma introduce obblighi molto più stringenti ed elimina l’esimente dell’assenza di un obbligo di sorveglianza dei contenuti che finora si è tradotto in una mancanza di responsabilità, imponendo l’obbligo di intervenire per contrastare i contenuti illegali.
Non è un segreto che le fake news, la misinformazione e le manipolazioni rappresentino un grande problema mai risolto e urgente, specie alla vigilia delle elezioni europee del 9 giugno prossimo. Ma per Bruxelles non c’è altro tempo da perdere: il 2024 è un anno fondamentale per la politica, e non solo europea, in cui la metà della popolazione mondiale rinnoverà i dirigenti in più di cinquanta paesi nel mondo. Appuntamenti elettorali che si terranno in un contesto difficile dopo la pandemia, seguita dallo scoppio delle guerre e da una diffusa instabilità geopolitica.
Non più tardi di un mese fa, in Germania, è stata scoperta un’estesa campagna di disinformazione pro-Russia sostenuta su “X” attraverso 50.000 account falsi che miravano a disincentivare gli aiuti per i cittadini ucraini. Un episodio che a Strasburgo è servito anche per analizzare i modelli di business delle principali piattaforme: “I loro introiti provengono soprattutto dalla pubblicità e dal tempo speso dagli utenti sui loro siti. Ciò che attira i fruitori è la rabbia e l’odio. L’algoritmo percepisce che le notizie false vengono diffuse molto più velocemente e agisce di conseguenza”.
Anche nel recente passato, in particolare durante il periodo pandemico, gli effetti devastanti della disinformazione si sono fatti sentire in modo pesante mettendo in circolo notizie false e destabilizzanti. Secondo uno studio del Parlamento UE, il 72% di un campione di cittadini UE afferma di leggere o sentire notizie solo attraverso il web, ovvero con sistemi di filtraggio scarsi o del tutto inesistenti. Ma non manca neanche chi vede nel controllo delle informazioni una forma di censura antidemocratica.
Chi non si adegua rischia multe che possono arrivare al 6% del fatturato annuale e al 5% dei ricavi quotidiani per ogni giorno di mancata applicazione. E non c’è tempo da perdere: il 7 marzo i sei colossi indicati dal “DMA” (Digital Markets Act), ovvero Alphabet, Google, Amazon, Apple, Meta, Bytedance e Microsoft, dovranno dimostrare come stanno applicando le nuove norme.
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