Per un Paese dove lo scorso aprile il tasso di disoccupazione è salito al 10,7%, suona come un litigio di numeri il record di 200mila posti vacanti che non si riescono a riempire. E consola poco sapere che una situazione simile la vivono anche il Belgio, l’Olanda e la Germania.
Secondo il Rapporto 2021 sul lavoro sostenibile della Fondazione per la Sussidiarietà, in collaborazione con il CRISP (Centro di Ricerca Università di Milano Bicocca), per ogni 1.000 occupati in Italia ci sono attualmente 15 nuove posizioni scoperte, quasi il doppio dello scorso anno. Si tratta in massima parte di lavoratori così detti “ad alta specializzazione”, ma seguiti da settori come il turismo (30 posti ogni 1.000 occupati), dove mancano dagli stagionali ai professionisti, e ancora informatica e telecomunicazione (24), studi professionali (22), costruzioni (22) e servizi (18). Un indice che la pandemia aveva portato verso un crollo dello 0,8%, risalito nei primi tre mesi dell’anno all’1,5%.
E se nei settori dove serve la specializzazione diventa sempre più complicato individuare personale con le giuste competenze, nel turismo, in cui la mancanza di personale si fa sentire maggiormente, un coro formato dagli imprenditori punta il dito verso gli aiuti di Stato, a cui a fronte del dolce far nulla in tanti aggiungono giusto qualche lavoretto saltuario in nero, giusto per arrotondare un po’. Alle cifre va sommato anche quanto riporta l’Employment Outlook 2021 dell’OCSE, secondo cui solo il 18% dei disoccupati italiani durante la pandemia si è rivolto ai centri per l’impiego, e ancora meno ai centri privati, dove ha bussato appena l’11%. Per tutti gli altri vale lo sconforto di una totale sfiducia nelle concrete possibilità di essere ricollocati.
Secondo qualcuno, una delle ricette per uscire da un “impasse” complicato starebbe nella formazione dei lavoratori in cassa integrazione, riducendo temporaneamente i contributi sociali di coloro che scelgono un nuovo impiego. Ma per l’OCSE, le colpe in realtà sono ben altre: durante la pandemia si è pensato molto a spendere per le politiche di sostegno e molto poco pensando al dopo.
E a questo punto non va meglio neanche per chi spera nel futuro: secondo l’Istat il livello di istruzione nel nostro Paese arretra vistosamente, con il 27,8% di laureati fra 30 e 34 anni che ci lascia al palo rispetto ad una media UE assestata sul 40%. Nel 2020, per concludere come si deve, 543mila under 25 (per il 45% residenti al sud), hanno deciso di abbandonare gli studi fermandosi alla terza media. Peggio di noi fa solo la Romania.
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