Nel gennaio del 1918, dieci mesi prima della fine della Grande Guerra, il presidente americano Woodrow Wilson stilò una lista di obiettivi – i “Quattordici Punti” – immaginando un nuovo assetto europeo da costruire dopo il conflitto. Vi rientravano, tra l’altro, il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione delle popolazioni soggette a governi stranieri, incoraggiandole a pensare, governare e controllare sé stesse, nonché la riduzione degli armamenti, l’abolizione della diplomazia segreta e soprattutto l’istituzione di una Società delle Nazioni, che avrebbe avuto il compito di mediare le controversie internazionali, così garantendo il rispetto delle regole di convivenza fra i popoli.
“Il mondo deve essere reso sicuro per ogni nazione pacifica che, come la nostra, desidera vivere la propria vita, stabilire liberamente le sue istituzioni, essere assicurata della giustizia e della correttezza da parte degli altri popoli del mondo, come pure essere assicurata contro la forza e le aggressioni egoistiche, perciò, il programma della pace nel mondo è il nostro stesso programma.”
Esordiva così il suo programma, sicché i rappresentanti della Germania che firmarono l’armistizio erano convinti che quei Punti sarebbero stati alla base del successivo trattato di pace. Quando, però, a gennaio dell’anno successivo si riunì a Parigi la Conferenza per la Pace per discutere i termini del Trattato, ben presto fu chiaro che i capi delle Nazioni europee vincitrici - Gran Bretagna, Francia e Italia - avevano altri piani. Il Trattato di Versailes firmato con la Germania nel giugno del 1919 conteneva, infatti, all’art. 231 la c.d. “clausola di colpevolezza” che riconosceva quest’ultima come principale responsabile del conflitto, imponendole termini di pace molto onerosi tra cui: un disarmo pressoché totale; la smilitarizzazione della zona del Reno; la cessione di territori al Belgio, alla Cecoslovacchia e alla Polonia; la restituzione di Alsazia e Lorena alla Francia; il risarcimento di tutti i danni materiali causati dal conflitto.
A settembre di quello stesso anno, col trattato di Saint-Germain firmato con l’Austria, venne poi stabilita la ripartizione del dissolto Impero austro-ungarico, sicché Trentino, Sud Tirolo (Alto Adige), Trieste, Gorizia e l’Istria (le c.d. province italiane “irredente”, perché rimaste sotto il dominio austriaco) furono attribuite all’Italia. Qualche anno dopo, ed in momenti diversi, anche Fiume, Zara e le isole di Cherso e Lussino, Lagosta e Pelagosa divennero italiane.
Sappiamo che poi, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con i trattati di Parigi del 1947, l’Istria, Fiume, Zara e le isole furono consegnate alla Jugoslavia di Tito, e sotto l’amministrazione jugoslava rimasero fino al Trattato di Osimo (10 novembre 1975) con cui l’Italia rinunciò senza contropartite al suo diritto su quei territori (ora croati e sloveni, dopo la disgregazione della Jugoslavia), mettendo così fine al martirio delle foibe e all’esodo di 350.000 istriani, fiumani e dalmati.
Oggi quei paesi sono “terre di mezzo”, in cui l’eredità culturale, sociale e umana italiana si percepisce ovunque; dove il suono della lingua nostrana fluisce naturalmente tra la gente e le strade, contrassegnate a loro volta in doppia lingua.
Ci sono, allora, in Europa “altri Donbass”; ma come si conviene a Nazioni civili, votate alla pacifica convivenza, esse hanno rinunciato a qualunque rivendicazione, lasciando che si creassero da sé le condizioni di coesistenza tra la propria cultura e le proprie tradizioni con quelle divenute ufficiali nei territori che un tempo erano di loro spettanza.
Vale per i territori che un tempo sono stati italiani, come vale per quelle terre del Sud Tirolo che prima erano austriaci e dove perciò forti persistono i tratti culturali, linguistici e nazionalistici delle rispettive origini.
Ce lo ricorda Hermine Aloisia Mair, nata nella primavera del 1919 a Cortaccia sulla Strada del Vino, un paesino della Bassa Atesina che per pochi mesi ancora sarebbe rimasto territorio dell'autoproclamata Repubblica dell'Austria tedesca. Il Trattato di Saint-Germain l’avrebbe infatti riconsegnato all’Italia con l'Alto Adige, e il regime fascista avrebbe sospeso e bandito l’uso della lingua tedesca.
Hermine - che di professione faceva la maestra - nonostante il divieto fascista, aveva continuato ad insegnare il tedesco ai bambini del posto, in una di quelle scuole clandestine (le Katakombenschulen, cioè le “scuole nelle catacombe”) nate dal bisogno di mantenere e difendere la propria identità e cultura.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, era tornata a insegnare liberamente, quando si erano poste le prime basi dell'autonomia dell'Alto Adige ed iniziavano anche a nascere i movimenti di rivendicazione dell’autodeterminazione.
Oggi, a 103 anni, Hermine si batte per ottenere il riconoscimento della cittadinanza austriaca: “Sono nata austriaca e voglio morire austriaca”, sostiene, e perciò da tempo ha presentato a Vienna la richiesta per ricevere il passaporto austriaco.
La sua prima istanza è stata però rigettata e, ora, attende la pronuncia sul ricorso presentato avverso il relativo provvedimento. Il governo di Vienna pare però non voler intervenire "per motivi costituzionali”.
Mi soffermo su questa notizia e sulla funzionale premessa con cui l’ho introdotta solo per giungere ad una considerazione, che sarebbe d'altronde facile ed intuitiva se la memoria del passato non sbiadisse e i suoi accadimenti valessero da insegnamento: le guerre sarebbero destinate a non finire mai se, con alterne vicende, conquistati e conquistatori continuassero a rivendicare materialmente territorialismi e nazionalismi che di volta in volta si presentino alterati per via di nuovi, imposti, vincoli e confini.
Basterebbe invece accontentarsi di un attributo formale – un documento – che certifichi comunque un‘appartenenza, senza pretesa di rivendicarla col sangue, per ottenere la pacificazione delle coscienze, tanto di chi voglia conservare la fedeltà al proprio passato quanto di chi, invece, voglia godere dei vantaggi di un diverso presente che abbia consentito il raggiungimento di conquiste senza costare sconfitta ad alcuno.
I confini, allora, non farebbero paura; il vicino non rappresenterebbe una minaccia; uno sbocco sul mare potrebbe essere costituito da una “terra di mezzo” in cui la convivenza pacifica non è un miraggio.